Siamo in un mondo, signori miei, dove il potere ha sempre avuto una predilezione per il buio, per gli angoli nascosti lontani dagli sguardi indiscreti dei cittadini. Julian Assange, quel genio impertinente della tecnologia, ha avuto l’ardire di accendere la luce. E per questa sua temerarietà, paga un prezzo eccessivamente caro.
Assange, l’enfant terrible dell’era digitale, è il fondatore di WikiLeaks, il sito che ha scoperchiato il vaso di Pandora dell’ipocrisia dei potenti, mostrandoci quello che non volevano che vedessimo. E per questo, è stato cacciato, braccato, perseguitato. È stato trasformato da paladino della libertà di informazione a fuggitivo, recluso nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, in Inghilterra.
Ed ora che fine ha fatto la libertà di stampa? Dov’è finito il diritto di saperne di più? La risposta è scomoda ma semplice: è rinchiusa in una cella di Belmarsh insieme a Julian Assange.
La richiesta di estradizione degli Stati Uniti pende sulla sua testa come una spada di Damocle. Se estradato, Assange potrebbe affrontare fino a 175 anni di prigione. Perché? Per aver osato dirci la verità. È una condanna alla pena capitale per la libertà di stampa.
Guardiamo ora ai possibili scenari futuri. Il primo è un incubo: Assange viene estradato, processato e condannato a trascorrere il resto della sua vita dietro le sbarre. Un sacrificio sull’altare della verità. Un monito a chiunque osi sfidare l’ordine stabilito.
Il secondo scenario, quello che speriamo, vede la mobilitazione dell’opinione pubblica mondiale e la pressione internazionale ottenere la sua liberazione. Questo richiederebbe un cambiamento di paradigma, un riconoscimento dell’importanza della libertà di stampa e del diritto di accesso all’informazione.
Fino ad allora, Assange rimarrà un martire della nostra epoca, un emblema del prezzo che si paga per aver osato sfidare il potere. E noi continueremo a chiederci: fino a quando dovremo tollerare questa ingiustizia?
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