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Askatasuna, lo sgombero che Torino doveva a sé stessa

A Torino, città abituata da decenni a convivere con l’ambiguità elevata a sistema, lo sgombero di Askatasuna segna uno spartiacque. Non tanto per l’atto in sé, che arriva tardivo come spesso accade in Italia, ma per ciò che smaschera: anni di indulgenza politica, di occhi chiusi in nome di una presunta “pace sociale”, di narrazioni tossiche che hanno trasformato un’occupazione abusiva in una sorta di istituzione parallela. Alla fine è dovuto intervenire lo Stato, su impulso del Viminale guidato da Matteo Piantedosi, mentre il sindaco Stefano Lo Russo ha recitato il copione del primo cittadino “costretto”, più spettatore che protagonista. Ma questa volta, piaccia o no, la legalità ha bussato alla porta e non se n’è andata a mani vuote.

La realtà, nuda e cruda: un’occupazione lunga trent’anni

C’è un dato che non si può aggirare con le parole buone: Askatasuna non era un “presidio culturale” neutro, era uno stabile occupato dal 1996 in corso Regina Margherita 47. Punto. E quando una città si abitua all’idea che un’occupazione diventi “normalità”, succede la cosa più italiana di tutte: la legalità viene trattata come un’opzione, mentre l’illegalità si traveste da “progetto”.

Lo sgombero e il sequestro arrivati all’alba di giovedì 18 dicembre 2025, con perquisizioni nello stabile e in abitazioni di militanti, non sono piovuti dal cielo. Sono stati legati a un filone d’indagine su assalti e danneggiamenti avvenuti durante manifestazioni pro-Palestina a Torino (tra cui episodi collegati a La Stampa, OGR e Leonardo). Non è “un’opinione”: è la cornice indicata dalle cronache e dalle agenzie.

Il “patto” e la politica del far finta di niente

Qui entra in scena il Comune. Per mesi, attorno ad Askatasuna è ruotata l’idea di trasformare quella sede in un “bene comune” tramite un patto di collaborazione, rinnovato in primavera. Una scelta politicamente grave: perché quando istituzionalizzi l’eccezione, mandi un messaggio chiarissimo a tutti gli altri. Ai cittadini che pagano affitti, tasse, regole e permessi dici: “Voi siete i fessi”. A chi occupa dici: “Tranquilli, prima o poi vi troviamo una cornice”.

E infatti, com’è finita? Con la realtà che bussa alla porta: secondo quanto riferito, durante l’operazione sono state riscontrate violazioni delle prescrizioni di interdizione all’accesso in parti dell’immobile (descritto come inagibile salvo il piano terra), circostanza che ha portato Lo Russo a dichiarare cessato il patto. In pratica: il castello di carte è crollato al primo colpo di vento.

Lo Russo “costretto”: la solita fuga dalla responsabilità

Il sindaco Stefano Lo Russo, in queste ore, ha insistito sul concetto: non sarebbe stata una decisione politica, ma un atto dovuto dopo le comunicazioni della Prefettura. È una linea difensiva comprensibile… eppure insufficiente.

Perché il punto non è solo “chi firma l’ultimo foglio”. Il punto è l’impostazione: se per anni si coltiva l’idea che un’occupazione possa essere “normalizzata”, quando poi lo Stato interviene si recita la parte del sindaco con le mani legate. Ma le mani, spesso, se le lega da solo chi decide di mettere il cappello pubblico su una realtà che pubblico non era, e che — nelle cronache giudiziarie e di ordine pubblico — viene associata a un’area antagonista tutt’altro che pacifica.

E c’è un altro dettaglio che pesa come un macigno: Torino non è una città qualsiasi. È una città che porta addosso ferite sociali, periferie in affanno, risorse limitate, commercianti esasperati. In un contesto così, la politica non può permettersi il lusso di fare la maestrina dei “beni comuni” con un edificio occupato: è un corto circuito etico prima ancora che amministrativo.

Piantedosi e lo sgombero: finalmente un segnale chiaro

Qui bisogna dirlo senza giri di parole: bene lo sgombero. Bene perché rimette al centro un principio elementare: non ci deve essere spazio per la violenza e per l’illegalità. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha rivendicato l’operazione come “un segnale chiaro dallo Stato”. Al netto dei toni social, il senso istituzionale è esatto: lo Stato non può apparire timido davanti a chi fa dell’eccezione una regola.

E quando, in serata, alcuni manifestanti hanno tentato di avvicinarsi o rientrare, la gestione dell’ordine pubblico ha mostrato che non si può negoziare ogni centimetro di legalità: si applica, e basta. Anche perché la “trattativa permanente” con l’antagonismo organizzato è una droga: dà l’illusione della pace sociale, e invece produce assuefazione al ricatto.

Non è “repressione”: è igiene civile

C’è sempre chi la chiamerà repressione. Ma la verità è più sobria: una città ha bisogno di confini. Senza confini non c’è comunità, c’è soltanto il più forte (o il più rumoroso) che detta legge. E qui, da cristiani, una cosa la capiamo bene: la misericordia non è confusione. La carità non è impunità. Il perdono non cancella il dovere della giustizia; semmai lo presuppone, perché senza giustizia il debole resta sempre schiacciato.

Lo sgombero di Askatasuna, oggi, non è la fine di un dibattito: è l’inizio di una domanda seria. Torino vuole essere una città governata dalle regole uguali per tutti, o una città dove alcune minoranze militanti ottengono sempre una corsia preferenziale, mentre il cittadino comune compila moduli e stringe la cinghia?

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Pubblicato inForze dell'ordineSicurezza

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