Il conflitto non si ferma. «Ma come per la crisi di Cuba del ’62, si possono mettere sul tavolo altre carte per far partire un dialogo». Intervista all’ambasciatore Vattani

La vignetta di Giannelli apparsa sabato sul Corriere della Sera riassumeva con un tocco di sarcasmo la situazione della guerra in Ucraina. Seduti uno di fronte all’altro i presidenti Joe Biden e Vladimir Putin si sfidavano in una partita a scacchi, muovendo come pedine i missili sulla scacchiera. Sotto il tavolo, c’era una bomba la cui miccia accesa lasciava presagire imminenti sventure.

Tempi torna a discutere della situazione del conflitto nell’Est Europa con l’ambasciatore Umberto Vattani, due volte segretario generale del ministero degli Affari Esteri e oggi presidente della Venice International University. A lui chiediamo di aiutarci a comprendere meglio una situazione che ormai si trascina dal 24 febbraio, giorno dell’invasione russa.

Timide aperture e immediate chiusure

Nelle ultime settimane, registriamo, da un lato, sia da parte russa sia da parte ucraina, dichiarazioni concilianti e dialoganti, dall’altro, però, anche immediate chiusure e minacce. Abbiamo visto il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov accusare Stati Uniti e Nato di «partecipare al conflitto» e, poco dopo, tendere una mano «all’uomo di pace John Kerry». Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha pronosticato la fine del conflitto «nei prossimi mesi, perché vinceremo noi». E, sull’altro fronte, Vladimir Putin ha mostrato i muscoli, deciso a non indietreggiare di un millimetro: «L’operazione speciale andrà avanti fino al raggiungimento degli obiettivi».

Intanto i russi colpiscono le infrastrutture energetiche dell’Ucraina e si avvicina l’inverno, che potrebbe fare entrare il conflitto in una nuova fase. «E con l’inverno arriva il Natale – dice Vattani a Tempi – e io mi auguro che, in questa dolorosissima situazione, il tradizionale appello di papa Francesco affinché ci sia una tregua trovi uomini di buona volontà disposti a metterlo in pratica».

Presi in una tenaglia

La situazione, nota l’ambasciatore, rimane complessa. «Si ha l’impressione che ora gli ucraini siano convinti di poter approfittare della loro controffensiva per riconquistare i territori persi. Sull’altro fronte, abbiamo segnali da parte dei russi di essere disposti a negoziare a patto che la parte avversa mostri lo stesso atteggiamento». Il fatto è che ora «la straordinaria capacità ucraina di sopportare le perdite, unita al fatto che possono contare sul sostegno occidentale, in particolare degli Usa, non ci fa intravedere un possibile percorso negoziale. In più, entrambi i contendenti non si fidano l’uno dell’altro e quindi anche una possibile tregua natalizia di qualche settimana rischia di essere solo un’ipotesi».

Ci troviamo «presi in una tenaglia», dice Vattani, da cui è difficile liberarsi. Gli stessi Stati Uniti, che pure potrebbero giocare un ruolo decisivo nel trovare uno sbocco alla crisi, si dicono disposti a intervenire in questo senso solo dopo un’apertura da parte di Kiev. «Joe Biden può contare sul sostegno del Partito democratico. Sa bene che la situazione crea gravi difficoltà agli alleati europei, in particolare a Germania e Italia, ma considera questo il prezzo da pagare per non darla vinta a Putin. Un risultato, dal loro punto di vista, gli americani lo hanno già ottenuto: hanno fortemente indebolito la Russia. Questo consente loro di occuparsi dell’altro grande avversario, la Cina».

La crisi di Cuba nel 1962

È passato quasi un anno di guerra «e il bilancio che faremo tutti il 24 febbraio è sconsolante. La comunità internazionale è stata incapace di trovare una soluzione. Anzi, dovremmo dire che abbiamo assistito a una continua escalation: battaglie sempre più cruente, ingenti danni alle infrastrutture, il permanente pericolo che siano colpite le centrali nucleari, missili ucraini che ora potrebbero colpire città russe vicino al confine con il rischio di ritorsioni sempre più violente… La tensione non si è mai allentata, anzi è aumentata. E a far da sfondo a tutto ciò la sempre terribile minaccia dell’uso della bomba nucleare». Quando il 24 febbraio 2023 ci troveremo a registrare l’anniversario della guerra, il timore dell’ambasciatore Vattani è che da quella tenaglia non saremo ancora usciti. «E poi cosa faremo? Aspetteremo di nuovo un altro anno? Ricordiamo che nel 2024 si votano le presidenziali sia in Russia sia negli Stati Uniti…».

Per uscire dalla morsa occorrerebbe cambiare prospettiva. «Al punto in cui siamo arrivati, né Putin né Zelensky, pur avendo entrambi buone ragioni per terminare il conflitto, possono permettersi di perdere la faccia». Cosa fare? La storia ci offre un suggerimento, nota il diplomatico. «La crisi di Cuba del 1962, cioè esattamente sessant’anni fa, fu risolta grazie a un accordo segreto tra Stati Uniti e Urss che riguardava lo smantellamento in Turchia dei missili americani Jupiter che minacciavano i sovietici». Anche in quel caso si era in una situazione di stallo, ma una via di uscita si trovò «ampliando lo scenario, cioè mettendo sul tavolo altre carte, che interessavano i due contendenti, per trovare un punto di incontro».

Allargare lo sguardo

Insomma, «il consiglio, in situazioni come questa, è di usare le armi della diplomazia: allargare lo sguardo, non fossilizzarsi solo sulla situazione contingente». Magari mettendo sul tavolo altre carte, finora non considerate, come «le possibili riduzioni degli armamenti nucleari, o intavolare negoziati per risolvere questioni complesse che riguardano l’Artico e l’Antartico, o fare passi in avanti per diminuire i rischi nello spazio». Soprattutto, sottolinea Vattani, «pensare “al dopo”. Cioè discutere della posizione della Russia nel continente europeo una volta terminato il conflitto».

Sessant’anni fa Nikita Chruscev e John Kennedy «si dimostrarono saggi ed evitarono lo scontro nucleare. C’è da augurarsi che la stessa saggezza sia usata dai capi di Stato di oggi».