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La rivoluzione necessaria: da individui a comunità

Ma qual è alla fine il primo problema del nostro paese per riconoscersi e farsi valere come popolo, come nazione, come società, come Stato? Non riusciamo ad essere una comunità e abbiamo mortificato, a ogni livello e in ogni campo il senso della comunità.

Alziamo gli occhi dalla quotidianità e proviamo a scendere più in profondità dei temi politici e sociali di ogni giorno. Ci troviamo davanti a questo tema enorme, basilare, che non riguarda solo la sfera della politica e del vivere civile, perché tocca anche la vita privata, la famiglia, il paese o il quartiere, il mondo del lavoro. E investe anche l’Europa. Non riusciamo ad essere e a vivere come una comunità. Riusciamo a pensarci e a comportarci solo da individui, separati da ogni contesto civile e da ogni legame sociale. Individui nella solitudine globale. La malattia mortale delle moderne società occidentali è proprio in quella riduzione individualistica della vita e nelle sue conseguenze in tutti i campi: la solitudine e anzi l’isolamento, come tratto primario della nostra esistenza; l’egoismo e l’egocentrismo nel rapporto col mondo; la soggettività come criterio di giudizio e orizzonte di vita; il narcisismo come amore malato di sé e impossibilità di amare gli altri. L’unica, ossessiva raccomandazione che viene ripetuta nei rapporti sociali, nei legami di coppia, nella psicanalisi, è star bene con se stessi. E’ il paradigma dell’individualismo assoluto, ciò che conta è solo quello, il resto può crollare, i legami si possono revocare se viene messo a rischio questo imperativo categorico. Sii te stesso è il mantra della nostra epoca, nota il filosofo e sociologo francese Gilles Lipovetsky nel ponderoso saggio La fiera dell’autenticità (uscito ora da Marsilio). Essere se stessi è un valore di culto fino a diventare un feticcio. Ma dietro questa nuova idolatria c’è ancora l’individualismo, e la sua versione riflessa e vanesia, il narcisismo. Non ci può essere amore né legami duraturi in una società in cui il narcisismo si è fatto patologico e di massa: si ama troppo se stessi per prendersi cura dell’altro, per accettare il prossimo con tutti i suoi limiti e differenze; e per sopportarsi nel corso del tempo. Il primato di “star bene con se stessi” supera ogni fedeltà, anzi tutto si fa fluido e reversibile; l’unica cosa che resta e che vale è l’Io e l’unica preoccupazione è il suo benessere.

Con queste premesse non è possibile alcun orizzonte comunitario, alcuna connessione sociale, alcuna appartenenza politica, alcun legame di gruppo e di coppia. L’idea stessa di famiglia cede al primato assoluto dell’individuo.

Senza comunità non è possibile alcuna società ma solo un frigido e mercantile contratto sociale, fondato sulla momentanea e reciproca utilità. Non è possibile riconoscere una comune appartenenza ma solo una comune utenza o peggio, una transitoria convergenza verso gli stessi consumi, guidati dal trend e dalle mode. Nessun “noi” è pensabile, perché siamo mutanti in base ai nostri desideri individuali, e dunque cambiamo partner e gestore, compagno di avventura e d’esperienza.

Un tempo i progressisti opponevano la comunità intesa come un insieme chiuso alla società intesa come un insieme aperto. Ma da qualche tempo viviamo in una società coperta, sempre più sorvegliata e controllata; abbiamo limitazioni e controlli impensabili pure in una vita comunitaria, senza peraltro avere i vantaggi e le motivazioni forti di tipo comunitario.

Alla fine del millennio scorso, scrissi un agile saggio su Comunitari e liberal, che pubblicò Laterza, dedicato proprio alla prossima alternativa per il nuovo millennio. Quell’alternativa è oggi urgente, anche se non c’è una compiuta rappresentazione politica dei due poli antagonisti. Di fatto avvertiamo sempre più lo scivolamento generale verso una società liberal e cosmopolita, liberista e libertaria nella sfera privata, con punte radical ma sul piano pubblico con ricadute repressive e liberticide, e con censure sempre più asfissianti. Ma nello stesso tempo l’insorgere dei populismi, dei sovranismi e dei movimenti conservatori, nazionali e sociali sono risposte spesso elementari, inconsapevoli, inadeguate, a un bisogno comunitario sempre più diffuso. Anche le ideologie collettiviste del passato, oscillanti tra socialismo democratico e comunismo, tradiscono ormai un’indole individualista e una politica delle soggettività; disegnano ogni giorno di più una sinistra individualista e global, nel sogno di un mondo di sradicati fluidi senza identità e senza comunità, in transito globale.

Non viene adeguatamente rappresentato e reso visibile il bisogno naturale e culturale, biologico e spirituale di comunità. O viene usato il linguaggio di ieri per indicare un bisogno di oggi e una necessità per domani; si evoca l’appartenenza religiosa, l’amor patrio e la difesa della famiglia per indicare esattamente quel che sentiamo mancare: un forte e sentito legame comunitario, a vari livelli, in cui ritrovare se stessi oltre la nostra singola individualità, i nostri desideri soggettivi, la nostra sfera privata e la nostra pulsione egocentrica e narcisistica. Comunità naturali, affettive ed elettive; comunità di provenienza, di movimento politico e di destino, comunità professionali, culturali e tradizionali.

Se un progetto di vita ci aspetta al largo nell’avvenire, quel programma è la comunità o la sua cancellazione. Si vive male e si muore peggio da soli; abbiamo bisogno di proiettarci in una comunità per dare un senso, un orizzonte e un destino alla nostra presenza nel mondo e nel tempo. Non c’è altra possibilità di rigenerare l’Italia e rifondare lo spirito di comune appartenenza, senza riconoscerci in una comunità. Sarebbe la vera rivoluzione, la vera trasgressione, il vero punto di svolta e il vero cambio di paradigma: pensare e vivere la comunità. In famiglia, in patria, nella nostra città e nella nostra civiltà.

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Pubblicato inEditoriale

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