In che mondo vivremmo (al condizionale) se ci fosse stato Donald Trump alla Casa Bianca al posto di Joe Biden nel 2022, quando Vladimir Putin decise di invadere l’Ucraina? In che mondo vivremo (al futuro) se Trump dovesse tornarci, alla Casa Bianca? Oppure se dal gennaio 2025 ci sarà un altro presidente repubblicano, influenzato dal trumpismo? Queste sono le domande che si pone il resto del mondo. Più che valutare la solidità delle accuse del procuratore Alvin Bragg (inconsistenti, anche secondo molti autorevoli democratici), più che entrare nei meandri di un processo rinviato di molti mesi, più che trarre giudizi definitivi sullo stato di salute della democrazia americana, europei cinesi russi indiani e tutti quanti al di fuori dagli Stati Uniti vorrebbero avere visibilità sulla futura politica estera della superpotenza numero uno. Il processo a Trump può essere un castello di carte, un teorema inficiato dalla faziosità politica di un procuratore molto discusso, ma rilancia nel mondo intero gli interrogativi sulla tenuta e sulla continuità della leadership americana, per esempio sulla guerra in Ucraina. Trump non ha dubbi, naturalmente. Più volte ha ripetuto due affermazioni. «Se fossi stato io il presidente, Putin non avrebbe invaso l’Ucraina». «Solo io posso evitare una terza guerra mondiale».
La storia ipotetica, quella fatta con i «se», è fanta-storia per definizione, non ha alcun rigore scientifico. È un esercizio utile solo se lo si affronta con molta prudenza, dichiarandone i limiti. Serve, qualche volta, a illuminare dubbi e contraddizioni che riguardano la storia reale. Per cominciare, quali elementi ci sono a sostegno delle affermazioni di Trump? Qualche credibilità bisogna riconoscergliela. Putin ha invaso l’Ucraina due volte, nel 2014 quando riuscì ad annettersi la Crimea, poi il 24 febbraio 2022. In tutti e due i casi ha scelto di attaccare quando alla Casa Bianca c’era un presidente democratico, Barack Obama nel 2014 e Joe Biden nel 2022. Questa non è la prova provata che non avrebbe attaccato durante una presidenza Trump, però può convalidare l’idea che i presidenti democratici non hanno la capacità deterrente di uno come Trump. Peraltro anche altri dittatori, da Assad in Siria al nordcoreano Kim, osarono azioni più aggressive sotto Obama e Biden che non durante il quadriennio di Trump. Eppure Trump, contrariamente ai luoghi comuni, non si è dimostrato un guerrafondaio. Sotto la sua presidenza gli Stati Uniti non avviarono nuovi interventi militari all’estero, anzi prepararono il ritiro dall’Afghanistan (poi eseguito malamente da Biden). In sostanza Trump si attribuisce la credibilità internazionale di chi riesce a incutere timore agli avversari senza bisogno di usare lo strumento militare. A suo tempo qualcuno invocò la «teoria del leader pazzo» (che piaceva a Richard Nixon): se riesci a far credere al nemico che potresti scatenare l’inferno contro di lui, inclusa l’arma nucleare, puoi piegarlo senza combattere. In fondo è la teoria che Putin sta usando da mesi contro l’Occidente, reiterando con puntuale regolarità le sue minacce nucleari.
Un’altra versione della storia, meno favorevole a Trump, può consistere nel dire che lui avrebbe evitato la guerra in Ucraina… cedendo l’Ucraina a Putin. Cioè con uno di quegli accordi – espliciti o sottobanco – che molti leader europei erano pronti a fare nel gennaio 2022 pur di evitare l’invasione. Trump è sempre stato sospettoso verso l’Ucraina in generale e verso Vladimir Zelensky in particolare. Mentre ha sempre avuto un’attrazione nei confronti di Putin. Forse avrebbe sì scongiurato l’invasione, ma concedendo alla Russia un diritto d’interferenza permanente nella politica di Kiev, magari con l’aggiunta di una neutralità filo-russa, di un veto permanente di Mosca all’accesso dell’Ucraina nell’Unione europea e nella Nato. Siamo nel campo delle ipotesi, per quanto forse verosimili. Aggiungo: questo tipo di concessioni a Putin, che Macron o Scholz avrebbero firmato senza esitare, rientrano in una logica dei compromessi tra superpotenze che viene teorizzata dalla dottrina geopolitica più conservatrice, la realpolitik di destra. Che questi accordi vengano pagati dai popoli viene considerato un danno collaterale inevitabile, un male minore pur di evitare conflitti diretti tra le superpotenze.
Una risposta critica alle domande ipotetiche di cui sopra, deve includere la questione delle alleanze. Trump esalta il suo bilancio di politica estera perché non iniziò nuove guerre e tenne a bada i dittatori. Però Biden all’attivo del suo bilancio ha la capacità di ricompattare l’Occidente, di rilanciare il ruolo della Nato (ora rafforzata con l’adesione definitiva della ex-neutrale Finlandia), di stringere le alleanze anche in Estremo Oriente con Giappone, Corea del Sud, Australia, Filippine. Alleati e partner erano stati spesso maltrattati da Trump, che quindi si era privato di una risorsa preziosa. Sulla Cina: Trump può sostenere di aver visto giusto, di avere aperto gli occhi agli americani sul pericolo rappresentato da Pechino. Le scelte di Biden hanno confermato la visione di Trump. Mentre quando era alla Casa Bianca il leader repubblicano veniva criticato per i suoi dazi contro le merci cinesi, in seguito Biden ha mantenuto quei dazi e vi ha aggiunto un embargo sulle esportazioni di tecnologie. La continuità nella politica cinese degli Stati Uniti può essere vista come una conferma che il trumpismo su questo terreno ha fatto proseliti anche a sinistra. Proiettato nel futuro, questo cosa significa?
Se l’istruttoria del procuratore Alvin Bragg ha come effetto quello di rimettere Trump al centro dell’attenzione mondiale, forse di rilanciare le sue chance nei confronti degli altri candidati repubblicani alla nomination, quali conseguenze può avere sulla futura politica estera degli Stati Uniti? Si è già visto nelle scorse settimane che un rivale potenziale di Trump in casa repubblicana, il governatore della Florida Ron DeSantis, si è sentito obbligato a rincorrere la base trumpiana con una uscita «isolazionista» sull’Ucraina: ha definito quella guerra «una disputa territoriale dove non è in gioco l’interesse vitale degli Stati Uniti». Quella frase è stata attaccata da molti altri repubblicani e DeSantis è stato costretto a fare marcia indietro. È stato però un episodio istruttivo. Ha mandato al resto del mondo il segnale che la prossima elezione presidenziale – soprattutto se Trump vi svolgerà un ruolo di primo piano – metterà in discussione alcune scelte qualificanti dell’Amministrazione Biden. In questo senso, più che il fragile castello di accuse del procuratore Bragg contro Trump, il resto del mondo ne analizza le conseguenze sulla popolarità di Trump a destra.
Federico Rampini