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Anche per la CEI finisce ufficialmente l’era pandemica

Dopo tre anni anche i vescovi italiani pongono fine allo “stato di emergenza ecclesiale”, ma solo dopo il via libera dell’Oms. Un ritorno alla normalità, con singole e (speriamo) circostanziate eccezioni, che non esula da domande su quei tre mesi in cui l'”ospedale da campo” ha smesso di curare

Dopo tre anni la pandemia è ufficialmente terminata anche per i vescovi italiani. La lettera della Cei è stata pubblicata l’8 maggio, a tre giorni dal pronunciamento dell’Oms (del 5 maggio), così come a suo tempo la sospensione dei riti religiosi in tutto il territorio nazionale era stata decretata il 9 marzo, all’indomani del primo di una lunga serie di DPCM che da Palazzo Chigi scandivano ciò che di volta in volta era proibito, concesso o «fortemente raccomandato». In Lombardia lo “stop” liturgico fu anticipato al 23 febbraio (e sempre, dichiarava l’arcidiocesi ambrosiana, «in ragione dell’ordinanza emanata dal presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, di concerto con il ministro della Salute, Roberto Speranza»).

Per cominciare non si può che rallegrarsi del dichiarato ritorno alla normalità, quando tutto il resto della società vi è tornato da un pezzo. Avevamo ormai dimenticato le autocertificazioni e persino il green pass; andiamo al bar o al ristorante come prima e più di prima, affolliamo le corsie del supermercato o gli eventi sociali e culturali. Ora che «il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, condividendo l’indicazione dell’apposito Comitato tecnico, ha annunciato lo scorso 5 maggio che il Covid-19 non costituisce più un’emergenza sanitaria pubblica di interesse internazionale», finalmente sappiamo una volta per tutte che banchi e inginocchiatoi non sono più pericolosi di altri luoghi.

La Cei rievoca il «tempo difficile in cui le nostre comunità cristiane sono state prossime con la preghiera e le opere di carità a chi ha sofferto la malattia e le conseguenze della difficile fase economica». Esprime gratitudine al «personale sanitario» e a «tutti coloro che, in qualsiasi maniera, hanno dato il loro contributo per alleviare i disagi e affrontare la crisi». E ricorda «le tante persone che hanno perso la vita, tra cui centinaia di sacerdoti, che hanno contratto l’infezione adoperandosi per il proprio ministero». Ministero tanto più degno di riconoscimento, aggiungiamo, in quei tre mesi di lockdown in cui i sacramenti erano divenuti una rarità.

«Accogliendo la comunicazione dell’OMS», ripetono ancora i vescovi, «segnaliamo che tutte le attività ecclesiali, liturgiche, pie devozioni, possono tornare a essere vissute nelle modalità consuete precedenti all’emergenza sanitaria». Insomma, si torna in chiesa e in presenza, segnalando l’opportunità «che cessino, o quantomeno siano diminuite nel loro numero, le celebrazioni trasmesse in streaming». «Tutte» e «nelle modalità consuete precedenti» sono parole che finalmente danno “speranza” (con la minuscola!), per esempio laddove si continua ad aver timore delle processioni oppure – caso frequente e segnalatoci anche dai nostri lettori – ci si ostina a imporre la comunione sulle mani anche a chi preferisce riceverla in bocca, secondo la forma tradizionale, e nonostante tale obbligo sia decaduto almeno dal 1° aprile 2022. Oppure dove ancora si grida al sacrilegio per omessa mascherina. O dove ancora si raccomanda (“non si sa mai”) di non inginocchiarsi al momento della consacrazione. E si intuisce, benché non detto esplicitamente, che sia tornato anche il precetto festivo, rimasto indefinito anche dopo la riapertura.

Dovremmo poter tornare a scandire la vita della Chiesa tra a.C. e d.C. nel senso tradizionale di “avanti Cristo / dopo Cristo” e non più in quello di “avanti il Covid / dopo il Covid”. Con qualche eccezione a discrezione dei vescovi diocesani, che possono «disporre o suggerire alcune norme prudenziali come l’igienizzazione delle mani prima della distribuzione della Comunione o l’uso della mascherina per la visita ai malati fragili, anziani o immunodepressi». Circostanze specifiche e ben delimitate, che speriamo nessuno voglia estendere per giustificare l’ulteriore protrarsi di uno “stato di emergenza liturgico” che perdura da più di tre anni. E creando un precedente non poco significativo, prima lasciando che l’autorità civile dicesse se andare o meno in chiesa; poi che si intromettesse anche nel modo di amministrare i sacramenti, senza battere ciglio – mentre gli ortodossi lo hanno battuto eccome (si vedano i due differenti protocolli).

Si impone una riflessione sul passato e una sul futuro. A tre anni di distanza, perché non chiedersi anche con una sana autocritica, cosa poteva offrire (e non ha offerto) la Chiesa in quel frangente? E in quanto Chiesa, al di là dei casi pur numerosi di singoli sacerdoti sopra ricordati o di singole voci isolate come quella di mons. Giovanni d’Ercole (vox clamantis in deserto). Non si può certo tacere l’impressione che, talora, la preoccupazione per la salute dei corpi sia stata superiore a quella per la salus animarum; che le mani di troppi sacerdoti fossero più impegnate a igienizzarsi che a benedire ed assolvere. Che nel momento di maggiore sofferenza, non solo fisica, ma anche psicologica e spirituale, a un numero troppo grande di anime, pressoché vicino al totale, la Chiesa che pur si vanta di essere “ospedale da campo” abbia detto: restate a casa e curatevi da soli. È il senso del cartello apposto sulla porta di un santuario: «Confessioni e messe sospese. Pregate in casa». Forse che ci si può assolvere da soli? Se il precetto festivo può essere modificabile per disciplina ecclesiastica, la confessione sacramentale non lo è, per diritto divino.

Sul futuro, già nell’aprile 2020 mons. d’Ercole scriveva: «Vedremo nel tempo quale effetto abbia causato questa quarantena con l’assenza delle celebrazioni, dei funerali, dei battesimi e del contatto diretto tra pastori e fedeli». L’effetto lo si è visto sin dalla riapertura delle celebrazioni pubbliche: tanti i posti vuoti tra i banchi, lasciati dalle vittime dell’allarmismo o semplicemente dell’inerzia. Posti lasciati vuoti da una pastorale che nei tre mesi precedenti aveva proclamato quale sommo comandamento dell’amore: “Non contagerai il prossimo tuo” (anche se magari eri perfettamente sano). Torna alla mente un libro del cardinal Giacomo Biffi intitolato Il quinto Evangelo, in cui, con la consueta ironia immaginava il ritrovamento di testi “originali” che avallavano finalmente le parole d’ordine più alla moda. Biffi morì nel 2015, ma se fosse vissuto ancora qualche anno avrebbe potuto fare lo stesso con gli Atti degli Apostoli, descrivendo così i cristiani al tempo della pandemia: «Erano assidui nell’ascoltare la conferenza stampa del premier e nel distanziamento fraterno e nel seguire in tv la frazione del pane…»

Stefano Chiappalone

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Pubblicato inCovid & Pandemia

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