Un concetto emerso dal G7 di Hiroshima. Significa «riduzione del rischio», che coincide con la nostra dipendenza da Pechino: per correre ai ripari dobbiamo aumentare la nostra autonomia, spostando produzioni dalla Cina verso casa nostra, o in alternativa verso altri Paesi emergenti che non consideriamo antagonisti
Dal vertice del G7 a Hiroshima è emerso un vincitore, il neologismo de-risking, che significa riduzione del rischio; insieme con una vincitrice che è la sponsor principale di questa innovazione nel linguaggio, l’Unione europea rappresentata da Ursula von der Leyen. Il rischio in questione è la nostra dipendenza dalla Cina. È un pericolo di portata strategica: proprio quando l’Occidente accelera l’adozione di energie rinnovabili come eolico e solare, e anticipa i tempi per metter fuori legge le auto a combustione, deve riconoscere che gran parte dei prodotti considerati «verdi» – pannelli fotovoltaici, batterie per pale eoliche, batterie per auto elettriche – sono «made in China». Anche in altri settori cruciali per il nostro futuro, come le telecom 5G (collegamenti Internet ultraveloci) continuiamo ad appoggiarci su tecnologie cinesi di cui controlliamo solo in parte l’uso. Per correre ai ripari dobbiamo aumentare la nostra autonomia, spostando produzioni dalla Cina verso casa nostra, o in alternativa verso altri Paesi emergenti che non consideriamo antagonisti.
Ma il neologismo de-risking serve a circoscrivere questa operazione. La riduzione del rischio così indicata come un obiettivo del G7 sostituisce un altro termine che era in voga fino a ieri: decoupling. Tradotto in dis-accoppiamento o magari divorzio, decoupling aveva assunto un senso più forte. Era usato per segnare una rottura rispetto agli ultimi trent’anni della globalizzazione, quando le due economie più grandi del pianeta – America e Cina – avevano sviluppato tra loro un tale livello di complementarietà da essere diventate come due coniugi. Concretamente, decoupling nell’uso corrente da parte di tanti dirigenti americani era diventato sinonimo di una riduzione generalizzata dei legami tra l’America (o l’intero Occidente) e una Cina divenuta troppo aggressiva e minacciosa: pandemia e guerra in Ucraina hanno accelerato la presa di coscienza sull’antagonismo di Pechino e le sue possibili ripercussioni. Ma c’erano state delle avvisaglie anche lontano da noi: quando la Repubblica Popolare anni fa decise di “castigare” il Giappone negandogli l’accesso a terre rare indispensabili per l’industria tecnologica.
Dismettere il termine decoupling per sostituirlo con de-risking significa adottare una strategia più limitata, fatta di operazioni chirurgiche, molto mirate: dobbiamo decidere in quali settori la dipendenza dalla Cina ci rende vulnerabili, e intervenire in questi. Importare «made in China» nel tessile-abbigliamento e nel calzaturiero probabilmente non ci espone a grandi rischi qualora questi flussi di forniture per qualche ragione dovessero interrompersi. Diverso è il caso per le apparecchiature biomediche o i semiconduttori, le batterie e i pannelli solari. Un altro problema riguarda quelle esportazioni dall’Occidente verso la Cina che ne favoriscono il riarmo, tecnologie suscettibili di usi militari.
Il regista della strategia e della politica estera americana, Jake Sullivan che dirige il National Security Council alla Casa Bianca, ha spiegato il nuovo atteggiamento verso la Cina con questa immagine: «Dobbiamo costruire delle palizzate molto alte, attorno a un cortile abbastanza piccolo». Traduzione: la protezione dei nostri interessi deve essere forte, ma il perimetro dei settori da difendere è limitato.
L’evoluzione linguistica da decoupling a de-risking si può anche celebrare come una vittoria dell’Unione europea, che è riuscita a far pesare i suoi interessi nel dialogo con gli Stati Uniti. È stata la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, a lanciare il neologismo sulla riduzione del rischio il 30 marzo, alla vigilia della missione ufficiale a Pechino in cui accompagnò Emmanuel Macron. La presidente della Commissione in quella occasione riuscì a prendere le distanze sia dai toni troppo filo-cinesi di Macron, sia dai falchi di Washington. «Io non credo – disse la von der Leyen – che un divorzio dalla Cina sia praticabile, né che sia nell’interesse dell’Europa. Le nostre relazioni non sono bianco o nero, e le nostre risposte non devono esserlo. Dobbiamo concentrarci sul de-risk, la riduzione del rischio».
Meno di un mese dopo, il 27 aprile era Sullivan a fare proprio lo slittamento linguistico proposto dalla von der Leyen. «Noi siamo a favore del de-risking, non del decoupling» aveva detto il National Security Adviser di Joe Biden. Aveva aggiunto la sua interpretazione: «De-risking significa avere delle catene di produzione-fornitura resilienti, per cui un singolo paese non possa ricattarci». Nell’evoluzione linguistica a Washington ha pesato la volontà dell’Amministrazione Biden di tenere unito il fronte occidentale, venendo incontro alle preoccupazioni degli alleati europei che non vogliono mettere in discussione l’intera relazione commerciale con la Cina. È una peculiarità di questa seconda guerra fredda – e la principale differenza dalla prima – il fatto di doverci difendere dalla crescente ostilità di un paese al quale ci legano rapporti economici vastissimi.
Nel mondo delle multinazionali sono già ben visibili delle applicazioni concrete del de-risking. Il chief executive di Apple, Tim Cook, vuole gestire una transizione dalla situazione attuale in cui l’85% dei suoi iPhone e iPad sono assemblati in Cina, ad un futuro in cui il 40% verranno prodotti in India e Vietnam. Lo aveva preceduto di alcuni anni la concorrente sudcoreana Samsung, «educata» da una tensione più antica, quando Pechino colpì Seul con sanzioni economiche: la Samsung è più avanti di Apple nel trasferimento di fabbriche in India e Vietnam, due paesi con cui l’Occidente ha rapporti più amichevoli.
Il de-risking può evocare anche strategie di diversificazione del rischio ben note nel mondo della finanza, dove è stata sempre considerata una regola prudenziale quella di «non avere tutte le uova in un solo paniere». Molte multinazionali – anche europee – stanno evolvendosi verso un nuovo approccio alla globalizzazione: produrre in Cina va benissimo finché si tratta di rifornire il mercato cinese; non è prudente invece concentrare in quel Paese la propria capacità di produrre per il resto del mondo.
Il «piccolo cortile con alte barriere di protezione» a cui allude Sullivan si riferisce anche ad un de-risking di altro genere: l’embargo sulle forniture di tecnologie occidentali alla Cina, teso a rallentare l’avanzata di Pechino in settori strategici. Un esempio è l’intesa tra Stati Uniti, Giappone, Regno Unito e Olanda, per bloccare l’esportazione di semiconduttori molto avanzati alla Cina. Questo embargo continua a suscitare reazioni indignate da parte di Xi Jinping. Secondo lui è un esempio di come l’Occidente voglia «opprimere la Cina», cioè frenarne l’ascesa. Pechino condanna anche tutte le nuove elargizioni di sussidi di Stato da parte degli Stati Uniti e dell’Unione europea che mirano a rafforzare la produzione autoctona di semiconduttori e batterie elettriche. In questo caso però Washington e Bruxelles hanno preso esempio dalle politiche industriali che la Repubblica Popolare applica (con successo) da decenni.
Federico Rampini
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