Immaginatevi la scena. Siamo nel 2021, in piena pandemia, con il mondo intero che ormai non sa più a che santo votarsi per capire cosa sta succedendo. Tra una conferenza stampa di Fauci e un bollettino di contagi che ormai somiglia a una roulette russa, spunta l’ennesima notizia che lascia tutti di stucco: la Casa Bianca, quella che dovrebbe essere la roccaforte della democrazia e della libertà di espressione, preme su Meta (quella che chiamavamo Facebook prima che Zuckerberg decidesse che aveva bisogno di una mano di vernice fresca) affinché censuri alcuni contenuti relativi al Covid.
Già, avete capito bene. Non parliamo di fake news palesi, tipo teorie secondo cui il virus è stato creato in un laboratorio segreto sotto il deserto del Nevada da un gruppo di scienziati pazzi con tanto di camici bianchi e ghigni malvagi. No, no. Parliamo anche di post umoristici, satirici, roba che al massimo potrebbe far sorridere qualcuno, magari aiutarlo a sopportare meglio l’ennesima giornata chiuso in casa a mangiare lievito madre e a guardare tutorial su come diventare panificatore in cinque facili mosse.
La lettera di Zuckerberg: quando il Ceo diventa un romanziere noir
E chi è che ha denunciato questa situazione grottesca? Proprio lui, Mark Zuckerberg, il mago dei social network, l’uomo che ha trasformato il “mi piace” in una moneta di scambio globale, quasi quanto il dollaro. In una lettera indirizzata alla Commissione Giustizia della Camera dei rappresentanti Usa, Zuckerberg, con lo stile di chi si è appena svegliato da un brutto sogno, racconta che nel 2021, alti funzionari dell’amministrazione Biden – sì, avete letto bene, l’amministrazione che predica la libertà di parola ogni volta che ne ha l’occasione – hanno più volte fatto pressioni sullo staff di Meta affinché censurasse determinati contenuti legati al Covid.
Ma c’è di più. Questi funzionari, che evidentemente avevano preso un master in “diplomazia della mazza da baseball”, si sono pure lamentati quando Meta ha osato esprimere il proprio dissenso. Insomma, il messaggio era chiaro: o fai quello che diciamo noi, oppure… Beh, lasciamo perdere le minacce velate, che tanto ormai siamo tutti adulti e vaccinati (forse).
La libertà di espressione ai tempi della pandemia: un concetto elastico come una mascherina
Sembra una di quelle storie che ti racconta il cugino di secondo grado, quello che è sempre convinto di sapere tutto e di avere le fonti migliori. “Sai”, ti dice con l’aria di chi la sa lunga, “la libertà di espressione, ai tempi del Covid, è diventata un concetto elastico. Praticamente, si è allungata e accorciata a seconda delle esigenze del momento”. E tu, inizialmente, lo guardi con scetticismo, ma poi pensi a quello che è successo davvero e ti rendi conto che, forse, quel cugino non è poi così pazzo come sembra.
Durante la pandemia, siamo stati tutti immersi in una sorta di bolla informativa. Da un lato, c’era la scienza – quella con la “S” maiuscola – che cercava di capire cosa stava succedendo e di trovare soluzioni. Dall’altro, c’era il caos delle opinioni, dei post sui social, delle teorie complottiste che spuntavano come funghi dopo una pioggia estiva. In mezzo, noi, poveri utenti, che cercavamo disperatamente di orientarci in questo labirinto di informazioni contraddittorie.
E in questa bolla, la libertà di espressione ha cominciato a somigliare a una mascherina chirurgica: elastica ai bordi, ma rigidamente limitata nelle sue dimensioni. Se provavi a tirarla troppo da una parte, rischiavi di romperla. Se invece ti adattavi, potevi magari sentirti un po’ soffocare, ma almeno non facevi arrabbiare nessuno. E così, quello che doveva essere un diritto sacrosanto, si è trasformato in una sorta di concessione, da distribuire con parsimonia.
Meta e il dilemma della censura: tra il martello del governo e l’incudine degli utenti
Ma torniamo a Meta e al suo dilemma. Da una parte, c’era la Casa Bianca, con le sue pressioni neanche tanto sottili. Dall’altra, c’erano gli utenti, quelli che avrebbero potuto scatenare un putiferio se si fossero accorti di essere stati censurati senza un motivo valido. Insomma, Meta si è trovata tra il martello e l’incudine, in una situazione che avrebbe fatto impallidire perfino il vecchio Solomone.
Zuckerberg, nella sua lettera, ha specificato che alla fine è stata una decisione di Meta se eliminare o meno i contenuti. Ma ha anche ammesso che, con il senno di poi e con le informazioni di cui dispone oggi, certe scelte non le rifarebbe. E qui, il nostro Ceo si trasforma improvvisamente in un romanziere noir, con tanto di rimorso per le decisioni prese in un momento di debolezza.
Ma chi può davvero biasimarlo? Il Covid è stato, ed è ancora, un terreno minato, dove ogni passo falso può avere conseguenze devastanti. E così, in questo clima di incertezza, Meta ha dovuto navigare a vista, cercando di non scontentare né il governo né i propri utenti. Un’impresa praticamente impossibile, come cercare di fare il giocoliere con delle uova mentre ti puntano un fucile alla tempia.
La satira sotto attacco: quando ridere diventa pericoloso
E qui arriviamo a uno dei punti più surreali di tutta questa storia: la censura dei post satirici. Sì, perché tra i contenuti che la Casa Bianca voleva vedere eliminati, c’erano anche quelli che cercavano di sdrammatizzare la situazione con un po’ di umorismo. E questa, lasciatemelo dire, è la ciliegina sulla torta.
La satira, da sempre, è uno degli strumenti più potenti per mettere in discussione il potere. Con una battuta ben piazzata, puoi smascherare l’ipocrisia, evidenziare le contraddizioni e, soprattutto, far riflettere chi ti ascolta. Ma durante la pandemia, pare che ridere sia diventato pericoloso. Come se una risata potesse in qualche modo indebolire gli sforzi per combattere il virus.
E così, tra un meme e una vignetta, c’è stato chi ha deciso che era meglio mettere tutto a tacere. Perché, in fondo, chi ride non è mai del tutto d’accordo, e chi non è d’accordo potrebbe diventare un problema. Meglio allora soffocare tutto sul nascere, per evitare guai.
La lezione del Covid: il potere della narrativa
Questa vicenda ci insegna una cosa fondamentale: chi controlla la narrativa, controlla anche la realtà. Durante il Covid, il controllo dell’informazione è diventato una vera e propria arma, usata per plasmare la percezione delle masse. Ogni messaggio, ogni post, ogni notizia è stata analizzata, filtrata e, in molti casi, censurata, per far sì che aderisse alla versione ufficiale.
E chi osava discostarsi da questa narrativa rischiava di essere messo a tacere, in un modo o nell’altro. Questo non significa che tutte le teorie alternative fossero corrette, anzi. Molte erano palesemente assurde. Ma il problema è un altro: quando il potere decide di imporre una verità unica, anche le idee più sensate rischiano di essere soffocate insieme a quelle deliranti.
Il Covid è stato, in questo senso, un laboratorio perfetto per testare i limiti della libertà di espressione. E quello che abbiamo visto non è affatto rassicurante. Se una delle più grandi democrazie del mondo è disposta a mettere sotto pressione una delle più grandi aziende tecnologiche del mondo per censurare delle informazioni, cosa succederà la prossima volta? Quale sarà il prossimo tema su cui non potremo più esprimerci liberamente?
Meta e la responsabilità del potere
In tutto questo, Meta si trova a dover fare i conti con una responsabilità enorme. Non si tratta solo di decidere cosa è giusto o sbagliato, ma di comprendere che, in un mondo dove i social media sono ormai il principale canale di informazione, ogni scelta ha delle ripercussioni enormi.
La decisione di censurare un post può sembrare insignificante, ma in realtà contribuisce a costruire la narrativa dominante. E quando questa narrativa è imposta dall’alto, senza spazio per il dissenso, rischiamo di trovarci in un mondo dove la verità non è più il risultato di un confronto libero e aperto, ma un dogma imposto dal potere.
Zuckerberg e il suo team hanno fatto delle scelte, alcune delle quali oggi ammettono di rimpiangere. Ma quello che conta è capire che la libertà di espressione non è un lusso che possiamo permetterci di sacrificare nei momenti di crisi. Al contrario, è proprio in quei momenti che dobbiamo difenderla con maggiore forza.
Il futuro della libertà di espressione: una battaglia ancora aperta
Questa storia ci lascia con un monito chiaro: la battaglia per la libertà di espressione è tutt’altro che conclusa. Se c’è una lezione che possiamo trarre dalla pandemia, è che dobbiamo essere estremamente vigili. Le pressioni del governo su Meta sono solo la punta dell’iceberg di un fenomeno molto più vasto, che riguarda il controllo delle informazioni e il tentativo di modellare la percezione collettiva.
Nel futuro, dovremo affrontare nuove sfide, nuove crisi, nuove emergenze. E ogni volta, il rischio sarà lo stesso: che qualcuno, da qualche parte, decida che per il bene comune sia necessario limitare la libertà di parola. La scusa sarà sempre la stessa: la sicurezza, la salute pubblica, la stabilità. Ma a quale prezzo?
Meta ha dimostrato che, anche sotto pressione, esiste ancora una resistenza a questo tipo di censura. Ma non possiamo contare solo su aziende private per difendere i nostri diritti. La libertà di espressione è un diritto che appartiene a tutti noi, e spetta a ciascuno di noi difenderlo, anche – e soprattutto – nei momenti più difficili.
Siamo disposti a vivere in un mondo dove impera la censura?
E così, mentre il mondo inizia a lasciarsi alle spalle la pandemia, restano aperte molte domande. Come garantirsi che episodi del genere non si ripetano? Come assicurarsi che, in futuro, la libertà di espressione non venga sacrificata sull’altare della sicurezza? La risposta, forse, sta proprio nella consapevolezza di quanto sia fragile e preziosa la nostra libertà. E nella determinazione di difenderla, ad ogni costo.
Perché, alla fine, la vera domanda non è se Meta abbia fatto la scelta giusta o sbagliata nel censurare quei post. La vera domanda è: siamo disposti a vivere in un mondo dove qualcuno, dall’alto, decide cosa possiamo e non possiamo dire? Se la risposta è no, allora è giunto il momento di svegliarsi e di pretendere che la libertà di espressione torni ad essere ciò che deve essere: un diritto inviolabile, in qualsiasi circostanza.