La famiglia Agnelli, un nome che evoca la grandezza industriale italiana, ha attraversato più di un secolo di storia tra successi, scandali e un incessante ricorso alle risorse pubbliche. In un’Italia che cambia, dove il patriottismo industriale lascia sempre più spazio al capitalismo finanziario senza frontiere, il nome Agnelli resiste. Ma oggi non è più sinonimo solo di Fiat o di auto, come i nostri nonni e padri avrebbero voluto farci credere. Oggi, gli Agnelli—anzi, gli Elkann, perché è giusto chiamare le cose col loro nome—si muovono su terreni molto più sofisticati e internazionali, con il solito copione: il successo è privato, i fallimenti pubblici. Insomma, il celebre motto “privatizzare i profitti, socializzare le perdite” trova nei signori di Torino la sua incarnazione più perfetta.
Dalle origini alla Fiat: il patriarca e il boom industriale
La saga degli Agnelli inizia a fine Ottocento, quando Giovanni Agnelli fonda la Fiat (Fabbrica Italiana Automobili Torino) nel 1899. Da quel momento, la storia della famiglia si intreccia indissolubilmente con quella dell’industria automobilistica italiana e, più in generale, con il destino del Paese. Durante il boom economico degli anni ’60 e ’70, la Fiat rappresentava il simbolo di un’Italia che correva veloce verso la modernità, costruendo macchine per il popolo e garantendo lavoro a migliaia di italiani.
Gianni Agnelli, l’Avvocato, divenne l’incarnazione di questo successo: elegante, raffinato, abile nel navigare tra politica e affari. La Fiat sotto la sua guida diventò non solo una potenza industriale ma anche un punto di riferimento culturale per l’intero Paese. L’Avvocato era ovunque: tra gli industriali, tra i politici, sulle pagine di gossip. Ma, come spesso accade alle famiglie potenti, la gloria era solo una parte della storia. Gli Agnelli, infatti, sono stati sempre accompagnati da un’altra costante: lo scandalo.
Scandali e omissioni: dal caso De Benedetti alla scomparsa di Edoardo
Come dimenticare il caso del divorzio tra Fiat e Carlo De Benedetti? All’inizio degli anni ’80, De Benedetti, chiamato come amministratore delegato della Fiat, durò solo pochi mesi. L’accordo saltò in un turbinio di polemiche e malelingue. Agnelli e De Benedetti finirono ai ferri corti, e la rottura segnò uno dei momenti più caotici della storia dell’azienda. La vicenda, in perfetto stile Agnelli, si concluse con una quantità impressionante di denaro pubblico per salvare la baracca. Il tutto, ovviamente, a spese dei contribuenti.
Ma non sono solo gli affari a macchiare la reputazione della dinastia. La tragica scomparsa di Edoardo Agnelli, il figlio ribelle dell’Avvocato, è una ferita mai rimarginata nella storia familiare. Il suo misterioso suicidio nel 2000 ha sollevato numerosi interrogativi mai risolti. Alcuni sostengono che Edoardo fosse stato emarginato dalla famiglia per le sue posizioni spirituali e politiche, decisamente non in linea con il pragmatismo capitalista di casa Agnelli.
Il passaggio del testimone: da Giovanni a John Elkann
La famiglia ha conosciuto numerosi lutti e scandali, ma ha anche sempre saputo come mantenere il controllo. Dopo la morte dell’Avvocato, il ruolo di capofamiglia è stato assunto da John Elkann, figlio di Margherita Agnelli e del giornalista Alain Elkann. E qui le cose si fanno interessanti.
John Elkann è tutto ciò che il nonno non era: meno visibile, meno carismatico, meno legato all’industria tradizionale. Se Gianni Agnelli era il volto della Fiat e della Torino operaia, John rappresenta una nuova era, quella del capitalismo finanziario, delle start-up tecnologiche, del venture capital. Ma, soprattutto, John Elkann è un perfetto esemplare della nuova classe dirigente globale: quella che si affida alle connessioni internazionali e ai fondi di investimento per governare il mondo senza mai sporcarsi le mani.
La trasformazione di Exor: dalla Fiat alla finanza
Oggi, la vera potenza della famiglia non si chiama più Fiat, ma Exor, la holding che controlla Ferrari, Juventus, The Economist e numerosi altri gioielli del capitalismo globale. Sotto la guida di Elkann, Exor ha fatto una chiara scelta di campo: lasciare progressivamente l’industria per concentrarsi sulla finanza. La vendita di Chrysler e la fusione con PSA (che ha portato alla creazione di Stellantis) sono solo l’ultimo capitolo di una lenta ma inesorabile dismissione del comparto auto.
Cosa è rimasto, dunque, dell’industria italiana? Poco o nulla. Stellantis, la nuova entità nata dalla fusione, è di fatto un conglomerato globale con radici sempre più deboli in Italia. E mentre gli stabilimenti italiani languono in cassa integrazione, Exor fa profitti record, con un utile che nel 2023 ha superato i 14,7 miliardi di dollari. Non male per chi, formalmente, sta uscendo dal settore auto, vero?
L’addio all’automobile e la nuova frontiera tecnologica
E qui arriviamo al punto cruciale: John Elkann, l’uomo che sta dicendo addio all’industria automobilistica, continua a chiedere soldi allo Stato italiano per sostenere un comparto che di fatto non gli interessa più. Il piano è chiaro: mentre Stellantis promette, ma non mantiene, una ripresa della produzione, Elkann ha già spostato l’attenzione su altri fronti. Con l’Italian Tech Week, la manifestazione organizzata nei giorni scorsi a Torino per promuovere l’innovazione, John si è presentato non come presidente di Stellantis o editore del Gruppo Gedi, ma come leader di Lingotto, un fondo di investimento che punta su tecnologie di frontiera come l’intelligenza artificiale, le biotecnologie e le “life sciences”.
In altre parole, Elkann vuole essere il Warren Buffett europeo, ma con i soldi degli altri. Mentre l’Italia continua a illudersi di poter rilanciare la produzione automobilistica, il giovane rampollo sta già investendo in startup internazionali e partecipando a dialoghi con i grandi della finanza globale, come Elon Musk e Sam Altman, il fondatore di OpenAI. Non c’è dubbio che le nuove frontiere tecnologiche siano interessanti, ma perché continuare a chiedere soldi allo Stato italiano se ormai il focus è altrove?
Le contraddizioni di casa Elkann: finanza, innovazione e fabbriche in crisi
La risposta, purtroppo, è semplice: la famiglia Agnelli-Elkann ha sempre saputo come muoversi tra pubblico e privato, tra innovazione e conservazione, tra promesse di rilancio e richieste di aiuto. Da un lato, Exor fa profitti miliardari grazie alla finanza globale. Dall’altro, Stellantis continua a chiedere sussidi allo Stato per mantenere aperti stabilimenti sempre più vuoti e operai sempre più disillusi.
E qui sta la grande contraddizione del sistema Agnelli-Elkann. Da una parte, John Elkann promuove con grande enfasi il futuro dell’innovazione e delle start-up, cercando di riposizionare l’Italia come centro nevralgico della ricerca tecnologica. Dall’altra, la sua azienda più visibile—Stellantis—non riesce nemmeno a mantenere le promesse fatte sul fronte industriale.
L’incoerenza strategica: perché non puntare tutto sull’innovazione?
La domanda che ci si pone, allora, è: perché la famiglia Agnelli-Elkann non smette di giocare con il comparto auto e non abbraccia fino in fondo l’innovazione? Perché continuare a perpetrare l’illusione che l’Italia possa ancora essere un centro di produzione automobilistica quando la realtà dice il contrario? I dati parlano chiaro: Stellantis vende sempre meno auto, le fabbriche sono in crisi e la cassa integrazione è la normalità. Eppure, gli Elkann continuano a chiedere aiuti di Stato, come se l’industria automobilistica italiana fosse ancora il motore del Paese.
La verità è che John Elkann ha già fatto la sua scelta. La sua attenzione è rivolta altrove: alle nuove frontiere della tecnologia, ai fondi di investimento internazionali, alla finanza globale. Ma, come spesso accade nella storia della famiglia, la transizione è lenta, piena di contraddizioni e, soprattutto, a spese dei contribuenti italiani.
Sii il primo a commentare