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Ucraina: la guerra persa e il “sì, ma” di Zelensky

C’è una verità che tutti conoscono e che nessuno osa dire apertamente. A Kiev come a Washington, a Mosca come nelle cancellerie europee: la guerra, così come era stata raccontata e promessa, è persa. Non nel senso propagandistico dei titoli di giornale, ma nel senso più concreto e brutale della storia. L’Ucraina non riconquisterà tutto, non detterà le condizioni, non uscirà vincitrice da questo conflitto. Zelensky lo sa. Come lo sanno i suoi alleati. E proprio per questo continua a rimandare una pace che, per lui, ha il sapore amaro di una sconfitta aperta.

Il “sì” che nasconde il no

Di fronte al piano di pace promosso da Donald Trump, Zelensky non alza barricate. Sarebbe suicida. Preferisce una strategia più sottile: accettare l’impianto generale, salvo poi svuotarlo dall’interno, come chi appone la firma in calce a un contratto ma pretende di riscrivere le clausole. È qui che nasce la politica del “sì, ma”, diventata ormai una cifra costante del presidente ucraino.

Elezioni? Certo, ma solo dopo un cessate il fuoco che nessuno è in grado di garantire. Zaporizhzhia? Sì alla sicurezza, ma con una formula di controllo talmente contorta da renderla impraticabile. Riduzione dell’esercito? In teoria sì, ma partendo dalle dimensioni attuali, cioè senza ridurlo davvero. Un assenso che non impegna, una disponibilità che non decide.

Rimandare la pace per rimandare la sconfitta

Il punto centrale è questo, ed è il grande non detto di tutta la vicenda: Zelensky sa che la pace certifica la fine della narrazione eroica. La guerra può essere raccontata come resistenza, sacrificio, martirio. La pace, invece, è un bilancio. E il bilancio dice territori persi, un Paese devastato, una dipendenza strutturale dall’estero e una generazione bruciata.

Per questo la pace viene continuamente spostata in avanti. Non perché non la si voglia in assoluto, ma perché la si teme. Firmare davvero significherebbe ammettere che la promessa della vittoria era irrealistica. Che il “fino all’ultimo” ha avuto un prezzo altissimo. Che il tempo non ha giocato a favore di Kiev, come assicuravano analisti, generali e commentatori da salotto.

La credibilità come foglia di fico

Zelensky giustifica tutto con la necessità di non perdere credibilità davanti al suo popolo. Ma qui la credibilità diventa una foglia di fico, dietro cui si nasconde l’incapacità di dire una parola impopolare ma necessaria: abbiamo perso e dobbiamo fermarci. È una frase che nessun leader ama pronunciare, ma che la storia presenta puntualmente il conto.

Continuare a usare il “sì, ma” serve a una cosa sola: trasformare la sconfitta militare in una lunga agonia politica, diluendo la responsabilità nel tempo e nei tavoli negoziali. Intanto però il Paese continua a pagare, giorno dopo giorno.

Un metodo già collaudato

Non è un’eccezione legata alla guerra. Zelensky ha già usato questa tattica con gli Stati Uniti sul dossier delle risorse minerarie. Nessun rifiuto netto, solo rinvii, riserve, “restrizioni” ripetute come un mantra. Una strategia che può funzionare quando si tratta di contratti e investimenti. Ma applicata a una guerra diventa cinica, perché il tempo non è neutro: scorre nel sangue.

La chiarezza brutale di Mosca

Sul fronte opposto, la Russia non nasconde nulla. Il Cremlino resta fermo sulle sue richieste fondamentali, senza ammorbidimenti lessicali. È una posizione dura, che può sembrare inaccettabile, ma almeno chiara. Il paradosso è che, nel confronto diplomatico, chi espone una linea netta appare più affidabile di chi moltiplica le condizioni per non arrivare mai a una conclusione.

Il “sì, ma” di Zelensky finisce così per indebolire la sua stessa posizione, dando l’impressione di una leadership che non negozia per chiudere, ma per guadagnare tempo.

La pace come verità scomoda

Da una prospettiva cristiana, la questione è limpida. La pace nasce dalla verità, non dalla tattica. Rimandarla per paura della sconfitta significa preferire l’orgoglio alla salvezza di ciò che resta. Ogni giorno in più di guerra non migliora le condizioni dell’Ucraina: le peggiora.

Zelensky non sta cercando una pace migliore. Sta cercando una pace più lontana, nella speranza che il tempo cambi il verdetto della realtà. Ma la storia insegna che la realtà non si commuove davanti ai “ma”.

Il conto finale

Prima o poi, la pace arriverà. E quando arriverà, dirà nero su bianco ciò che oggi si finge di non vedere. Ogni rinvio non cancella la sconfitta: la rende solo più costosa. Continuare a correggere le virgole di un accordo serve a salvare una leadership, non una nazione.

La guerra è già finita nei fatti. Resta solo il coraggio – o la mancanza di coraggio – di ammetterlo.

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Pubblicato inGeopolitica

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