C’è un’immagine che stride più di tutte: bambini che a Natale non possono stare con mamma e papà, non perché abbandonati o maltrattati, ma perché qualcuno ha deciso che il loro modo di vivere non era “adeguato”. La vicenda della cosiddetta famiglia nel bosco non è solo una storia di cronaca giudiziaria: è uno specchio inquietante di come, oggi, lo Stato concepisca la famiglia, la diversità e il potere di decidere cosa sia il bene di un minore.
Qui non si tratta di santificare i genitori né di demonizzare le istituzioni. Si tratta di capire fino a che punto la tutela possa spingersi senza trasformarsi in abuso, e se davvero esistano bambini uguali davanti alla legge o, come spesso accade, figli di un dio minore.
Che cosa è successo: la vicenda in breve
Per chi non conosce il caso, è bene fare un passo indietro. Una famiglia di origine straniera, con figli minori, sceglie di vivere in modo isolato e spartano, in un contesto naturale, lontano dai centri abitati. Una scelta certamente radicale, fuori dagli schemi, ma che – almeno inizialmente – non presenta elementi di reato: i bambini non risultano denutriti, non emergono violenze, non ci sono abusi conclamati.
La situazione cambia quando entrano in scena i servizi sociali, allertati per lo stile di vita ritenuto “non conforme”. Partono le relazioni, le valutazioni, le segnalazioni al tribunale per i minorenni. Da lì, il passo è breve: il giudice dispone misure restrittive fino ad arrivare alla separazione temporanea dei figli dai genitori, con collocamento in altra struttura o famiglia.
I genitori contestano fin da subito l’impostazione del procedimento, parlano di incomprensioni culturali, di giudizi preventivi, di una decisione maturata più su valutazioni ideologiche che su fatti concreti. Nel frattempo, però, i bambini vengono allontanati. E arriviamo a oggi: Natale senza mamma e papà, mentre la battaglia legale è ancora in corso.
Quando la diversità diventa colpa
Il vero nodo della vicenda non è il bosco, ma ciò che rappresenta. Vivere fuori dai modelli dominanti, educare i figli in modo non standardizzato, diffidare dell’intervento pubblico: tutto questo, nel sistema attuale, rischia di trasformarsi automaticamente in sospetto. E il sospetto, nei procedimenti minorili, pesa come piombo.
È qui che si innesta un meccanismo tanto silenzioso quanto pericoloso. Relazioni degli assistenti sociali, perizie psicologiche e decisioni giudiziarie finiscono per alimentarsi a vicenda, creando un circuito chiuso. L’assistente segnala una criticità, il consulente la traduce in “fattore di rischio”, il giudice la assume come quadro coerente. Non si verifica più se il rischio sia reale: lo si dà per acquisito perché “certificato”.
Non è complotto, è burocrazia che si autoassolve. Una macchina che procede per inerzia, dove ogni passaggio rafforza il precedente e rende sempre più difficile tornare indietro. Così la diversità diventa colpa, la resistenza diventa prova, il dissenso diventa inadeguatezza.
Il punto di vista della famiglia
Dal lato dei genitori, il racconto è netto. Parlano di accanimento, di dialogo mai realmente avviato, di richieste di adeguamento totale più che di accompagnamento. Sostengono di aver mostrato disponibilità a migliorare aspetti pratici, ma di essersi rifiutati di rinnegare la propria identità culturale e familiare.
Il loro errore, secondo questa lettura, non sarebbe ciò che hanno fatto ai figli, ma ciò che non hanno fatto per lo Stato: piegarsi subito, uniformarsi, accettare senza discutere. Una colpa grave, in un sistema che tollera tutto tranne l’autonomia.
Il Natale senza mamma e papà
Il dato umano resta però uno solo, ed è impossibile aggirarlo: i bambini. Spostati, collocati, “tutelati” lontano dai genitori proprio nel periodo dell’anno che più di ogni altro parla di famiglia. Si dice che sia temporaneo, che sia per il loro bene. Ma per un bambino il tempo non è una pratica amministrativa: è ferita o consolazione.
E allora la domanda si impone, senza retorica: davvero non esistevano alternative meno traumatiche? Davvero non si poteva vigilare senza separare, correggere senza spezzare?
Serie A e Serie B: la provocazione che fa male
Matteo Salvini ha posto una domanda brutale, ma inevitabile: se lo stile di vita “non conforme” è motivo sufficiente per togliere i figli, perché non intervenire allo stesso modo nei campi rom, dove spesso le condizioni sono ben peggiori? Perché lì la tolleranza culturale diventa sacra, mentre altrove si trasforma in manganello?
Il problema non è Salvini. Il problema è la disparità di trattamento. Esistono bambini di serie A, iperprotetti quando i genitori non piacciono al sistema, e bambini di serie B, sacrificabili sull’altare dell’inclusione ideologica?
Tutela o esercizio di potere
Nessuno contesta il dovere dello Stato di intervenire in caso di reale pericolo. Ma quando la tutela scivola nella normalizzazione forzata, il rischio è enorme. Oggi la famiglia nel bosco, domani l’istruzione parentale, dopodomani chi educa i figli secondo una visione religiosa non allineata.
E il Natale, festa della Sacra Famiglia respinta e costretta a vivere ai margini, rende tutto ancora più amaro. Anche allora c’era un potere convinto di sapere cosa fosse meglio per un bambino.
Una ferita ancora aperta
La vicenda non è chiusa. I ricorsi vanno avanti, la famiglia non si arrende, i bambini aspettano. Resta una domanda che dovrebbe inquietare tutti, anche chi oggi applaude all’intervento: chi decide davvero cos’è il bene di un minore? E con quali limiti?
Se la risposta è un apparato che parla solo con se stesso, allora non è solo questa famiglia a essere in pericolo. Lo siamo tutti.

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