Il mondo intero, e in particolare gli avversari dell’America a Mosca e a Pechino, osservano con attenzione l’ennesimo «psicodramma Trump». Tutti cercano di trarne delle indicazioni sullo stato di salute dell’America, e anche sulle probabilità di una rielezione dell’ex presidente repubblicano nel 2024, che avrebbe ripercussioni mondiali. L’inchiesta in corso a New York davanti a un Grand Jury, che potrebbe sfociare in un suo «arresto» (insisto sulle virgolette), è considerata fragile anche dagli osservatori più ostili a Trump. Comunque vada, gli appelli del leader repubblicano alla rivolta non sembrano scatenare grandi mobilitazioni, i timori di un altro 6 gennaio 2021 per adesso appaiono esagerati. E tutto questo baccano, contrariamente a una teoria in voga, non dovrebbe rafforzare le probabilità di rielezione di Trump.
Comincio con una spiegazione sulle virgolette di cui sopra. Quando si parla di arresto, che cosa s’intende? È altamente improbabile che Trump venga ammanettato e rinchiuso in una cella. L’arresto in questione dovrebbe essere una procedura burocratica e breve: il tempo di prendere la sua foto segnaletica e le impronte digitali, nonché di comunicargli formalmente di quale reato viene incriminato, se così deciderà la giuria speciale. Poi l’imputato tornerebbe libero, in attesa delle udienze del processo. La formalità può durare pochi minuti, anche se è ricca di «photo-opportunities», immagini simboliche e spettacolari: nessun ex presidente è mai stato incriminato, neppure Richard Nixon per lo scandalo Watergate del 1974. È Trump che cerca di trasformare la cosa in uno show, evocando un arresto ben più spettacolare di quanto sarebbe in realtà. Ha già scatenato la fantasia dei fabbricanti di fake news che sui social hanno messo in circolazioni immagini di Trump in divisa arancione da carcerato, o di operazioni poliziesche come si addicono all’arresto in flagranza di un boss della mafia.
La causa del breve e simbolico arresto sarebbe l’incriminazione in seguito all’indagine sul caso Stormy Daniels, la porno-star pagata 130.000 dollari per comprare il suo silenzio durante la campagna elettorale. Il pagamento in sé non è illegale. L’accusa sostiene che Trump però occultò la vera natura di questo pagamento nella contabilità della sua azienda, quindi siamo in un campo più vicino al falso in bilancio. È perseguibile ai sensi della legge di New York, non di quella federale. Comunque è un’infrazione che normalmente si punisce con una pena pecuniaria, non è un reato penale. L’accusa vuole riuscire a collegare questa infrazione con un’altra, la violazione della legge sul finanziamento elettorale, che è una normativa federale. Perfino un quotidiano che si vanta di praticare il giornalismo «resistenziale» e milita vigorosamente nel campo anti-Trump, il New York Times, riconosce che «i dettagli piccanti di per sé non costruiscono un’istruttoria». Il quotidiano di sinistra sostiene che il procuratore «deve riuscire a compiere una manovra difficile», «basandosi su una teoria legale che non è mai stata usata da un giudice».
Ai forti dubbi che esprime perfino il New York Times, bisogna aggiungere qualcosa sulla figura del procuratore. Colui che firma questa indagine è Alvin Bragg. La sua è una carica elettiva e Bragg è un democratico. Non un democratico qualsiasi: appartiene all’ala della sinistra radicale, quella che teorizza una rivoluzione giudiziaria per raddrizzare tutte le ingiustizie sociali. Il bilancio generale di Bragg, anche secondo molti democratici, è disastroso. Se New York ha sofferto un forte aumento della criminalità ivi compresi gli omicidi, lo si deve al fatto che lui ha messo in libertà molti carcerati condannati per reati violenti. Soprattutto se i colpevoli di reati appartengono a minoranze etniche, Bragg li considera per definizione vittime di una società ingiusta. Il New York Police Department lamenta di non poter riportare l’ordine in città se la procura rilascia gran parte di coloro che la polizia arresta. Il sindaco democratico, l’afroamericano Eric Adams, ha più volte chiesto che Bragg venga destituito, ma la governatrice dello Stato Kathy Hochul (anche lei democratica) è l’unica che ha il potere di farlo e non osa. Bragg infatti nella sua crociata per svuotare le carceri gode di appoggi importanti nell’ala sinistra del partito, e tra i media come il New York Times. Il sospetto è che Bragg abbia deciso di cavalcare la sua campagna giudiziaria contro Trump per diventare inattaccabile e mettere in ombra il bilancio della sua gestione in città.
Quello sulla porno-star Stormy Daniels è solo uno dei tanti procedimenti giudiziari aperti contro Trump, da diverse magistrature in tutta la nazione. Alcuni si sono già sgonfiati per evidente faziosità. Il presunto maxi-scandalo che occupò le prime pagine dei giornali, quando Trump venne accusato di essersi portato a casa dei documenti riservati dalla Casa Bianca, è diventato invisibile quando si è scoperto che… così fan tutti. Joe Biden ha il garage della sua casa di Wilmington pieno di scatoloni con documenti «classified», cioè top secret (ricordi della sua vicepresidenza con Barack Obama).
Le inchieste più serie dovrebbero essere quelle che riguardano frodi fiscali, elusione ed evasione da parte delle società di Trump. Si trascinano da molti anni, alcune iniziarono quando era ancora presidente. Anche qui vale il «così fan tutti»: The Donald, quando faceva solo l’immobiliarista, ha goduto di normative fatte su misura per un settore che vive di privilegi fiscali. Tutti i grandi palazzinari hanno costruito delle fortune anche grazie a marchingegni fiscali scandalosi che a loro consentono di minimizzare la pressione fiscale. Nello Stato di New York queste leggi portano spesso la firma di politici di sinistra, visto che il partito democratico domina in questa parte del Paese. Trump per gran parte della sua vita fu vicino al partito democratico, finanziò le campagne elettorali di tutti i politici locali compresa Hillary Clinton e il capogruppo democratico al Senato Chuck Schumer. Il groviglio di complicità e corresponsabilità che consentono ai palazzinari di pagare pochissime tasse, è talmente complicato che forse spiega perché l’Internal Revenue Service (l’Agenzia delle Entrate) abbia aspettato decenni prima di lanciare qualche accertamento serio sui conti dell’azienda Trump.
La scorciatoia giudiziaria quindi ha molte limitazioni e controindicazioni. Forse questo spiega perché sia proprio Trump a insistere sulla spettacolarizzazione dei processi: deve essere convinto di poterli vincere, e di uscirne come martire.
La strada martiriologica verso la rielezione però rischia di non funzionare. Qui do la parola a uno dei più autorevoli strateghi elettorali del partito repubblicano, Karl Rove. Secondo Rove l’appello di Trump alla sua base perché scenda in piazza per difenderlo dall’arresto, è semplicemente «stupido». Rove spiega così il suo ragionamento: se gli ultrà del MAGA (Make America Great Again) obbediscono al capo e danno vita a proteste violente, indeboliscono le chance di rielezione di Trump perché riportano in primo piano il suo ruolo nell’assalto al Congresso il 6 gennaio 2021. Se invece, come appare più probabile, le proteste non raccolgono un seguito di massa, questo sarà un segnale che il sostegno popolare verso Trump è sceso. Lui potrebbe perfino cumulare i due effetti negativi: anche piccoli gruppetti di scalmanati basterebbero a dare un’impressione di pericolosità. In conclusione, per Rove «i vantaggi per Trump di una sua incriminazione sono temporanei» e destinati a svanire presto. La sua strategia insiste nel mobilitare la base più motivata e fanatica, ma già nel 2020 questa base non gli bastò per farsi rieleggere. «Il risultato più probabile – sostiene ancora Rove – è che le sue escandescenze convinceranno più repubblicani che lui è ineleggibile».
Nel frattempo il repubblicano Ron DeSantis si è già pentito di essersi allineato troppo palesemente sulla posizione di Trump contro l’Ucraina. Il governatore della Florida alcuni giorni fa aveva definito la guerra in Ucraina come «una contesa territoriale» dove «non sono in gioco interessi vitali per l’America». Subissato di critiche dall’establishment repubblicano classico, che non è certo filo-russo, DeSantis è tornato sui suoi passi, ha detto che le sue parole erano state «fraintese», e ha definito Vladimir Putin «un criminale di guerra». Xi Jinping e Putin in questa fase devono pensare che una vittoria repubblicana indebolirebbe il fronte occidentale riportando l’America su posizioni isolazioniste; ma se scommettono sulla tenuta del trumpismo stanno facendo un calcolo azzardato.
Federico Rampini