Tempo stimato di lettura:3minutiUn intervallo di sette giorni, dal 21 al 28 giugno del 2022. È quello che garantirà a Cosimo Maria Ferri di restare a vita e per legge nelle stanze del potere, al ministero della Giustizia in cui ha già comandato per cinque anni, con tre partiti e sotto tre premier diversi. E di non tornare a fare il lavoro per cui – in teoria – è ancora pagato dallo Stato: quello di “umile” giudice del Tribunale di Massa, distaccato alla sezione penale di Carrara. Una funzione che il “geco” di Pontremoli, potentissimo uomo-cerniera tra politica e magistratura, in realtà ha svolto per appena tre degli ultimi 17 anni, cioè dal 2010 al 2013. Prima era stato al Csm, eletto appena 35enne, il più giovane membro di sempre. Dopo ha iniziato una florida carriera da politico: sottosegretario nei governi Letta, Renzi e Gentiloni (prima in quota Pdl, poi Forza Italia, poi Pd) nel 2018 entra alla Camera coi dem e dopo la scissione renziana passa a Italia viva. A settembre 2022 manca clamorosamente la rielezione nelle liste del Terzo polo: per un po’ sembra accontentarsi di fare il consigliere comunale a Carrara, dove qualche mese prima aveva fallito la corsa per diventare sindaco. Ma dopo qualche mese si dimette e chiede di rientrare nel ruolo organico della magistratura. È lì che spunta il regalo inaspettato, o forse no: per una sola settimana, la riforma “anti-porte girevoli” dell’ex Guardasigilli Marta Cartabia gli “impedisce” di rimettersi la toga. E lo “costringe” (virgolette d’obbligo) a tornare per sempre in via Arenula, accanto al ministro Carlo Nordio e a tutti quelli che verranno dopo di lui. Così una legge pensata per ostacolare le carriere “ibride” tra i due mondi, come quella di Ferri, finisce di fatto per incoraggiarle. Vediamo perché.
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