Enzo Biagi: Con l’Avvocato in giro per Torino. La gente perdona gli Agnelli nonostante i soldi
Nel 1998 il grande giornalista si fece accompagnare dal patron della Fiat per un “viaggio” nella capitale sabauda, epicentro del nostro sviluppo economico grazie all’azienda di auto, «l’unica multinazionale italiana». «Qualcuno dice che non si deve parlare del passato ma non è vero, è molto piacevole farlo»
La Torino che abbiamo conosciuto da ragazzi era quella di De Amicis, dei due vecchietti che sorridevano dalle scatole del Cacao Talmone, di Addio, giovinezza: certo anche la città dove facevano le automobili, quella dei circoli dei nobili o delle leghe proletarie, con due squadre di calcio, e i grandi viali, gli edifici austeri, le memorie di una antica capitale.
Da lì, raccontavano i maestri, è partito il nostro Risorgimento: e c’è il Palazzo Carignano, con l’aula che ospitò i primi 433 deputati del Regno d’Italia e al Ristorante del Cambio conservano il tavolo dove sedeva Camillo Benso di Cavour. I divani scarlatti sono sempre gli stessi; tutto è rimasto come allora: i tavoli in ferro battuto, e un vecchio menù elenca i piatti che venivano serviti al signor conte: lo «stuffadino», il «sarribaglione», le «sarde di Nantes». Neppure gli aristocratici e la corte erano forti in italiano.
I ricordi della sorella Susanna: La regina Maria Josè era bellissima, molto timida. ma anche tanto, tanto strana…
«L’avvocato» (è Gianni Agnelli), come il «cavaliere» è Berlusconi, e il «professore » Prodi, mi accompagna alla scoperta di certi aspetti inconsueti della sua città: gli Agnelli, ha scritto un polemista, sembrano cosmopoliti, ma in verità «sono torinesi tra torinesi, e torinesi Fiat tra torinesi Fiat». C’è sempre stata a Torino una famiglia che per gli italiani contava e aveva un peso nelle decisioni importanti: si chiamava Savoia, adesso si chiama Agnelli. Le circostanze li favoriscono: gestiscono la loro impresa assai meglio di quanto i politici hanno amministrato il Paese. Il popolo, e nessuno sa quanto gli costa, li perdona anche se hanno tanti soldi. «L’ultimo signore d’Italia» così Stern aveva definito Agnelli III. Era il nipote più amato dal Fondatore, che prevedeva: «Quel birichin lì», quel giovanottino, li farà ballare tutti. E non era un sentimentale. Un giorno il vecchio senatore si presenta al Lingotto aspirando il solito sigaro. Ma scorge un cartello: «È severamente proibito fumare». Chiama il custode: «Perché non mi hanno avvertito che adesso è proibito?» «Perché chiel a l’è ‘l padron», risponde l’usciere, e gli sembra una buona ragione. Viene punito. Torino si identifica con la Fiat, e anche il metal-meccanico lega la sua vita a quella della ditta. Che lo segue dappertutto: quando va a fare acquisti alla Rinascente, se beve un vermut Cinzano, se legge un libro Bompiani 0 Rizzoli, o i testi scolastici della Fabbri, se compera una utilitaria a rate, 0 se carica una sveglia Borletti, se va in vacanza al Sestriere.
È il 1899 quando la Fabbrica Italiana Automobili Torino, sorta «per la costruzione e il commercio» dei nuovi, veicoli, assume i primi cinquanta dipendenti. Quanta strada. Nasce come hobby costoso di alcuni gentiluomini dai colletti alti e dai baffi alteri: invece che alle scuderie pensano ai motori. C’è tra loro un ex ufficiale di cavalleria che, stanco di amministrare cascine, vuol tentare le sconosciute vie della meccanica, e pensa che l’automobile è destinata ad avere un futuro: è Giovanni Agnelli I.
II modello di esordio lo fotografano al Valentino accanto a una languida signora dal cappello a vari piani: è il Tipo A. Ha i fanali a carburo, le ruote poco più grosse di quelle delle biciclette, due sedili, la tromba. Può fare anche 35 chilometri all’ora, ma il massimo consentito è di sei; costa 4200 lire. Roba da signori.
Tra i primi clienti: il re di Spagna, Guglielmina d’Olanda, il Kaiser Guglielmo II. Vittorio Emanuele III in principio è riluttante, trova il nuovo mezzo «brutto, pericoloso e abominevole» ma un giorno rimane a piedi a Ostia, per un incidente del treno, accetta un passaggio dal principe Colonna e ordina per il Quirinale dieci automezzi.
«O basta la’» È un modo di stupirsi educatamente per qualcosa di sproporzionato. “Lei dice?” esprime invece un educato dissenso
Il Piemonte è una terra dove abbondano i tipi singolari: perfino i santi escono dalla tradizione, dall’iconografia normale. Il Cottolengo, che nello spirito della carità raccoglie creature infelici, rivela anche certi aspetti manicomiali; don Bosco terrorizza Vittorio Emanuele II per indurlo a non firmare le leggi Siccardi, che sopprimono alcuni ordini religiosi e tolgono dei privilegi alla Chiesa.
Don Bosco gli riferisce sogni terrificanti, e lo avverte; durante una visione notturna un valletto gli è corso incontro urlando: «Grande funerale a corte». Infatti è una premonizione esatta e scalognatrice, e le maledizioni colpiscono inesorabili: il Savoia, che i sudditi considerano «galantuomo», perde in poche settimane la madre, la moglie, il fratello e un bambino di quattro mesi, l’ultimo nato. Il re invidia i reggimenti che vanno in Crimea a combattere i russi; sempre meglio, dice, che dover fronteggiare preti e suore.
Dice Giorgio Bocca: «Tutto distingue i piemontesi: la geografia e la loro storia. Per parecchio tempo hanno deciso le cose più importanti della politica italiana. I dirigenti del partito comunista erano quasi tutti torinesi, Gramsci e Togliatti stavano qui; da qui è partita l’industrializzazione e il miracolo economico. L’unica, multinazionale che c’è in Italia è la Fiat. Il Piemonte ha avuto per primo uno Stato e un esercito efficienti. C’è una dote precipua dei piemontesi, che non è la genialità, lo spirito, non sono spumeggianti, né grandi intellettuali, ma il buonsenso. Credo che Cavour e Giolitti siano stati politici che ne avevano tanto». Certamente il sistema di vita è molto più duro, compatto e omogeneo che da altre parti, il marchese Massimo D’Azeglio era solito dire: “Quando voglio respirare un po’ di aria libera vado via da Torino e vado a Milano”. Nel Piemonte la Fiat ha sostituito i sovrani; c’è stato proprio un passaggio: quella che era una volta l’autorità monarchica, la disciplina monarchica, si è trasferita in questa grande impresa e c’è un patriottismo aziendale per cui fino a poco tempo fa, un impiegato 0 un funzionario, che si presentava in fabbrica con una vettura di un’altra marca, veniva considerato un reprobo. La Fiat ha dato ricchezza, ha fatto progredire il Piemonte, ma ha anche creato problemi terrificanti, esempio l’emigrazione al Nord dei meridionali, con problemi sociali spaventosi che non si sono sanati neppure adesso».
Confessa Umberto Eco: «Mi sento piemontese più ora che a venti o a quarant’anni. Come per tutte le appartenenze, si scoprono man mano che si invecchia, per le stesse ragioni per cui nel momento della morte si chiama la mamma. Vorrei riassumerla in un’espressione alla quale ho anche che dedicato alcune pagine: “O basta là” detta di fronte a qualsiasi affermazione un po’ troppo forte; può essere l’intera teoria di Hegel, l’esposizione di un sistema religioso, il progetto della pace nel mondo, una dichiarazione d’amore troppo forsennata. Il piemontese dice: “O basta là”, che è anche un modo di stupirsi educatamente per qualcosa di sproporzionato che ci viene messo di colpo di fronte, e ritirarsi in un educato scetticismo. L’altra affermazione che trovo molto piemontese, sempre davanti ad affermazioni che possono andare da un discorso di Mussolini al Manifesto di Marx e Engels alla celebrazione della New Age è: “Lei dice?” che è un modo di lasciare all’altro la responsabilità con un educato dissenso, una decisa volontà di non essere interessato a quello che l’interlocutore sta raccontando perché al mondo sono un po’ tutti stupidi»
Gianni Ggnelli: Mussolini l’ho visto per la prima volta proprio qui (al Lingotto) nel 1932. Ci fu l’adunata, mio nonno indossava il tight
(…) L’avvocato Agnelli mi accompagna sui luoghi che segnano il paesaggio, e lo stile di Torino, e anche momenti della sua vicenda: ci legano affinità generazionali, siamo di quelli che nel giugno del 1940 avevano vent’anni. Andiamo al Lingotto; sul tetto c’è la pista dove provavano le auto, e facciamo un giro. Credo che l’idea l’abbia avuta il primo Giovanni Agnelli, che era uno dei pochi italiani, con il senatore Cini, il finanziere, che conosceva allora gli Stati Uniti e aveva visto la Ford. Il Lingotto, ora restaurato, la scenografia degli eventi che contano. «Mussolini – racconta Gianni Agnelli – l’ho visto la prima volta da bambino, proprio qui; ci fu l’adunata nel cortile, il nonno indossava il tight, eravamo nel 1932. Sette anni dopo, invece, a Mirafiori, molte cose erano già cambiate: portava l’uniforme di membro del Senato, io ero in divisa del Guf; stavo sul palco, ma in fondo, lontano. Mussolini arrivò con un’Alfa 0 una Lancia, e la cosa fu considerata di pessimo gusto. Poi si rivolse alle maestranze: “Il mio discorso sulla previdenza e sugli orari settimanali lo avete letto?” chiese. Un lungo, imbarazzante silenzio. “Allora” riprese irritato “andate a casa e imparate”». Il senatore si sentiva innanzitutto piemontese, e parlava volentieri il dialetto; i gerarchi fascisti li aveva battezzati «gli italiani», il che fa supporre non avesse una grande considerazione dei compatrioti. Ancora un ricordo: al funerale di Edoardo Agnelli, padre dell’avvocato, la bara è portata dai capi reparto del Lingotto, e accanto al gagliardetto del gruppo rionale fascista c’è l’azzurra bandiera della Fiat col motto: «Cielo, Terra, Mare». Andiamo allo Stadio Comunale, dove si sta allenando la Juventus. Mi presenta a Marcello Lippi: è un allenatore che ammiro, perché parla e si comporta secondo gli usi delle persone serie. Del resto, nelle interviste, sono quasi sempre gli atleti che ne escono meglio. «Qui – dice l’avvocato – giocava la squadra dei tempi di mio padre, quando vinsero cinque scudetti, dal ‘30 al ‘35. Qualcuno dice che non si deve parlare del passato, ma non è vero, è molto piacevole farlo». Mi permetto una citazione da un libro di memorie che ebbe un certo successo: quello di una maitresse americana. «Il passato – diceva – ha sempre il culo più roseo». E l’avvocato aggiunge: «Chi non ha ricordi di solito li ha così brutti che non li vuole rievocare».
Proseguiamo per il Museo nazionale del Risorgimento, con la guida gentile professor Umberto Levra, storia all’Università. C’è l’aula del parlamento subalpino, lo studio di Carlo Alberto, e hanno ricostruito la cella di Silvio Pellico allo Spielberg: le sue memorie, nei bei tempi del nozionismo, erano una lettura educatrice, ma adesso credo che gli alunni pensino che la marcia su Roma fu una riuscita competizione di atletica leggera.
(…) È Susanna Agnelli che ricorda quando in casa c’erano feste 0 ricevimenti, e si spargeva la notizia emozionante: «Stasera vengono i Principi di Piemonte». Maria José portava il diadema sui capelli biondi, il filo di perle attorno al collo, l’abito di seta scollato, come nelle fotografie di Ghitta Carrol. Umberto indossava l’alta uniforme, magro, composto, sorridente. «Maria José – ricorda Susanna – era bellissima, assomigliava a Carolina di Monaco, molto timida, ma anche tanto strana».
(…) È a Torino che nasce il cinematografo, nei capannoni dalle pareti di vetro, e la radio, e fino al termine della guerra c’era un indirizzo famoso: Eiar, via Arsenale 21, Torino, ed è qui che viene fondata la Fiat, Fabbrica Italiana Automobili Torino. Quasi un secolo fa: 1899. C’è una poetica definizione degli anniversari di Borges: «Un attimo che muore e un altro che sorge». Le vicende di una industria che si intrecciano, anzi: prendono il via, da quelle di una famiglia: gli Agnelli.
La biografia di Enzo Biagi
Giornalista tra i più popolari del 900, scrittore, autore e conduttore tv, Enzo Biagi, Emiliano di Lizzano in Belvedere (Bologna), nacque nel 1920 ed è scomparso nel 2007 a Milano, a 87 anni. Il primo periodo al Corriere è tra il 1963 e il 1971. In quell’anno accetta la direzione de Il resto del Carlino a Bologna, ma l’esperienza finisce bruscamente e già a fine ‘71 torna al Corriere, dove resta fino all’81 quando decide di passare a Repubblica dopo lo scandalo P2. Ancora al Corriere nell’88 e vi resta fino alla morte.