Il 20 gennaio 1942 si registrò uno dei momenti più tetri della storia moderna, in una tranquilla villa affacciata sul lago Großer Wannsee, nella periferia meridionale di Berlino. In quell’inverno freddo e tagliente, la Villa Marlier divenne lo scenario di un incontro sinistro, uno che avrebbe marchiato a fuoco il corso del Novecento: la Conferenza di Wannsee.
La conferenza coinvolse quindici uomini – burocrati di alto livello, funzionari e militari del regime nazionalsocialista – e fu orchestrata da Reinhard Heydrich, all’epoca capo del Reichssicherheitshauptamt (RSHA), l’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich. I partecipanti erano l’élite del potere nazista: segretari di Stato, alti funzionari e un sottosegretario, riuniti non per dibattere, ma per ricevere direttive su un piano già in atto, la cosiddetta “soluzione finale della questione ebraica” (Endlösung der Judenfrage), un eufemismo che nascondeva il genocidio pianificato degli ebrei europei.
Il mandato era chiaro e terribile: definire i dettagli organizzativi per l’arresto, la deportazione e l’annientamento di circa undici milioni di persone. Il protocollo di Wannsee, redatto da Adolf Eichmann, è una testimonianza glaciale dell’industrializzazione della morte. Questo documento, uno dei pochi sopravvissuti alla distruzione sistematica delle prove da parte dei nazisti, evidenzia la freddezza burocratica con cui fu organizzato lo sterminio. Eichmann, seguendo le istruzioni di Heydrich, produsse un resoconto dettagliato che fu distribuito in trenta copie, di cui solo una minuta, la sedicesima, sopravvisse agli sforzi di cancellazione della memoria.
La decisione di procedere con lo sterminio era stata presa ai più alti livelli del nazionalsocialismo, coinvolgendo Adolf Hitler, Heinrich Himmler, lo stesso Heydrich e altri leader del partito. Tuttavia, la conferenza di Wannsee rappresenta un momento chiave nella burocratizzazione del genocidio, in quanto mise d’accordo diverse branche del governo nazista sulla logistica e l’implementazione della “soluzione finale”.
Durante la conferenza, si discusse di come gli ebrei sarebbero stati deportati verso est per lavorare in condizioni inumane. Il protocollo riporta la cinica considerazione che molti di loro sarebbero morti a causa del “decremento naturale”, e quelli che fossero sopravvissuti, essendo “la cellula germinale di una rinascita ebraica”, avrebbero dovuto essere eliminati.
Le parole del protocollo rivelano l’orrenda verità: la conferenza non fu semplicemente un incontro amministrativo, ma il sigillo burocratico su un piano di sterminio di massa. I ghetti e i campi di concentramento erano già realtà, ma dopo il 20 gennaio 1942, la macchina dell’Olocausto accelerò con una precisione spaventosa.
Il termine Olocausto, che significa “offerta sacrificale completamente bruciata”, è comunemente usato per descrivere il genocidio degli ebrei europei. Tuttavia, molti sopravvissuti e discendenti preferiscono il termine ebraico “Shoah”, che significa “calamità”. È una parola che cerca di catturare l’incommensurabile dolore e perdita di una tragedia che non dovrebbe mai essere dimenticata.
La Conferenza di Wannsee rimane un simbolo oscuro della capacità umana di pianificare la distruzione su scala industriale. La freddezza del suo verbale e la minuziosa pianificazione dell’indicibile servono da monito perenne: il genocidio è il risultato di scelte deliberate, e la memoria di quegli eventi deve perdurare come guardiano contro il ripetersi delle atrocità del passato.