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Nel cuore di una società dove il cinema si traveste da santa reliquia della cultura, arriva il caso di Ginevra Elkann. Un nome che pesa, una storia che insegna: l’arte del finanziamento pubblico al cinema, l’ennesima dimostrazione di come i soldi dei contribuenti siano trattati con la stessa cura con cui si maneggia il Monopoli durante una serata alcolica. Ma, cari lettori, partiamo dal principio.
La protagonista di questa vicenda è Ginevra Elkann, discendente della famosa dinastia Agnelli, regista di professione, viaggiatrice per passione. Una figura che sembrerebbe estrarre ispirazione dalle pagine di un romanzo cosmopolita, se non fosse per un piccolo, insignificante dettaglio: quasi 3 milioni di euro elargiti dall’ex ministro piddino della Cultura, Dario Franceschini, per finanziare le sue opere cinematografiche, che, diciamocelo francamente, non passeranno alla storia per il loro incasso.
Parliamo di cifre, perché in questo mare di follie i numeri sono le uniche boe a cui aggrapparsi. “Magari” e “Te l’avevo detto”, i capolavori in questione, hanno beneficiato della generosità dello Stato italiano, per un totale di 2.828.044,32 euro. Il ritorno? Un misero bottino di 130mila euro. Un affare, direte. Sì, un affare per chiunque abbia un briciolo di senso critico e comprenda l’assurdità di questa situazione.
Non è la prima volta che assistiamo a simili “investimenti” da parte della sinistra, maestra nell’arte di finanziare opere di dubbia risonanza con il denaro altrui (vero, Veltroni?). E mentre la Elkann naviga tra Londra, Brasile, Parigi, lo Stato italiano si svena, dimostrando ancora una volta un’approssimazione nel gestire le risorse pubbliche che farebbe invidia al più spericolato dei giocatori d’azzardo.
Dove è l’errore? Forse nel credere che il cinema, per quanto nobile possa essere come forma d’arte, debba vivere di rendite statali, soprattutto quando a beneficiarne sono figure che di bisognoso hanno ben poco. Non stiamo parlando di sostenere l’arte emergente, le voci fuori dal coro che lottano per farsi sentire, ma di alimentare un sistema di favoritismi e connivenze che svuota le casse dello Stato per riempire quelle di chi, evidentemente, non ne ha proprio bisogno.
L’ex ministro Franceschini ha giocato la sua partita, distribuendo fondi con la generosità di un Babbo Natale ubriaco, senza chiedersi, o forse ignorando, le reali conseguenze di queste scelte. Ma il gioco sembra essere finito. Il ministro Sangiuliano ha messo il naso in questa vicenda, scoprendo un panorama che chiama disperatamente a una revisione del sistema dei finanziamenti pubblici al cinema.
Non si tratta di negare il sostegno al settore cinematografico, ma di chiedersi a chi e come questo sostegno venga erogato. Si parla di un sistema che ha visto pagamenti milionari a registi per film che non hanno saputo attirare più di una manciata di spettatori nelle sale. Un sistema che, in nome di un perlomeno dubbio mecenatismo, ha trasformato il cinema in un club esclusivo per pochi eletti, dimenticando che l’arte dovrebbe essere patrimonio di tutti.
È tempo di chiedersi se vogliamo continuare a finanziare l’effetto “La Terrazza alla Ettore Scola”, quel luogo simbolico dove l’amichettismo culturale della sinistra trova terreno fertile. L’arte del finanziamento sodale, più che solidale, dove i fondi pubblici diventano il premio di consolazione per chi sa giocare bene le proprie carte all’interno di un sistema marcio.
La questione Elkann non è che la punta dell’iceberg, un caso emblematico di come il denaro pubblico venga spesso mal gestito, destinato a progetti che non restituiscono alla collettività altro che la certezza di un sistema che necessita di una profonda revisione. Non si tratta di fare la guerra al cinema o agli artisti, ma di combattere una gestione superficiale e clientelare delle risorse, che finisce per danneggiare proprio quell’arte che pretende di sostenere.
Il cinema italiano ha bisogno di supporto, certo, ma di un supporto che premi il merito, l’innovazione, la capacità di raccontare storie che parlino a tutti, non solo a una ristretta cerchia di intimi. È giunto il momento di smettere di giocare con il denaro pubblico come se fosse un gioco. Perché l’arte merita rispetto, il cinema merita di essere celebrato, ma soprattutto i cittadini italiani meritano di sapere che i loro soldi vengono investiti con saggezza e lungimiranza, non sperperati in avventure cinematografiche destinate all’oblio.