In uno scenario che sembra tratto da un thriller di spionaggio, Julian Assange brandisce ancora un’ultima speranza contro la sua tanto dibattuta estradizione negli Stati Uniti. L’ombra lunga dello Zio Sam lo insegue da quasi un decennio e mezzo per aver disseminato segreti che hanno fatto tremare le fondamenta del Pentagono e del Dipartimento di Stato: documenti incandescenti, pieni di verità scomode che hanno messo a nudo i lati più oscuri della diplomazia e della guerra a stelle e strisce.
Eccola, la novità: l’Alta Corte di Londra ha aperto le porte, non senza una certa solennità, all’ultimo, disperato tentativo di Assange di evitare di finire nelle grinfie americane. I giudici, vestiti delle loro toghe cariche di storia e tradizione, hanno ascoltato le suppliche della difesa, precedentemente respinte, concedendo a questo guerriero digitale australiano e padre fondatore di WikiLeaks, un ulteriore appello. Si combatte ancora, quindi, sul suolo britannico, contro la consegna a un paese che ha già affilato le sue armi giuridiche.
Non è una commedia, ma un dramma in piena regola, con i giudici di secondo grado, Victoria Sharp e Adam Johnson, che hanno deciso di scrivere il prossimo capitolo di questa saga a maggio. La loro è stata una decisione ponderata, influenzata dalle preoccupazioni per la vita di Assange, che risuonano come un monito grave e inquietante. Il Regno Unito e gli Stati Uniti sono ora sotto pressione per fornire “rassicurazioni” più concrete e convincenti sulla sorte che attenderebbe il fondatore di WikiLeaks dall’altra parte dell’Oceano.
In gioco c’è la libertà di espressione, sancita dal Primo Emendamento della Costituzione statunitense, e l’ombra terrificante della pena capitale. Se la porta si fosse chiusa ora, Assange avrebbe avuto solo una manciata di giorni per organizzare un’ultima, disperata resistenza, magari appellandosi alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Le argomentazioni degli avvocati di Assange ruotano attorno alla difesa della libertà di stampa e al rischio di vedersi negare i diritti più fondamentali di fronte alla giustizia americana, con l’incubo di una pena esorbitante: 175 anni di carcere.
Il panorama è grigio e turbolento per Assange, la cui salute è in declino dopo anni di detenzione preventiva nelle tetre mura del carcere di Belmarsh a Londra, seguiti da un lungo periodo di asilo forzato nell’ambasciata dell’Ecuador. E mentre si diffondono voci di un possibile accordo con Washington, che potrebbe evitargli l’estradizione in cambio di un’ammissione di colpa per un reato minore, la moglie Stella avverte che Assange non sopravvivrebbe alla detenzione in una prigione americana.
Nel frattempo, dalla Russia arriva un commento sprezzante sul sistema giudiziario britannico, descritto come una “farsa” dalla portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova. Una critica che, sebbene provenga da un paese con un discutibile rapporto con la libertà di stampa, riflette l’eco internazionale di una vicenda che continua a tenere il mondo con il fiato sospeso.