Yahya Sinwar è un nome che ad alcuni suscita ribrezzo, ad altri un’oscura forma di ammirazione. E chi non lo conosceva fino a pochi giorni fa, dopo l’attacco devastante del 7 ottobre 2023 contro Israele, sicuramente lo avrà sentito nominare. Parliamo di un uomo che si è guadagnato il soprannome di “macellaio di Gaza” non per una casuale associazione di idee, ma per le sue azioni e la sua mente fredda e calcolatrice. Uno stratega spietato, che ha dedicato la sua vita a una causa ben precisa: distruggere Israele. O, almeno, provarci.
Le origini: il rifugiato che sarebbe diventato carnefice
Yahya Ibrahim Hasan al-Sinwar, nato nel 1962 a Khan Yunis, uno dei peggiori campi profughi della Striscia di Gaza, si è fatto le ossa nella miseria. La sua famiglia era stata cacciata dalla città di Ashkelon durante la Nakba, e quel trauma, misto alla povertà estrema in cui crebbe, lo forgiò in modo irreversibile. A metà degli anni ’80, Sinwar si unì ad Hamas, allora solo un movimento politico emergente. Ma non si accontentava di fare politica: a lui piaceva la violenza, e lo dimostrò fondando al-Majd, l’apparato di sicurezza interna di Hamas, incaricato di sradicare, letteralmente, i collaboratori palestinesi con Israele. Cosa significa “sradicare”? Beh, per Yahya significava seppellire vivi gli informatori. È così che si guadagnò la reputazione di “macellaio di Khan Yunis“.
La prigione: una laurea in spionaggio e odio
Nel 1988, Sinwar fu arrestato dall’esercito israeliano per aver ucciso due soldati e fu condannato all’ergastolo. Passò 23 anni in una prigione israeliana, ma non passò il tempo a fare il filantropo. No, lui studiò. Studiò Israele, imparò l’ebraico, lesse i testi fondativi del sionismo. Non era un patriota pentito, era uno stratega che approfondiva la conoscenza del suo nemico. E, come se tutto questo non bastasse, durante la detenzione, scrisse anche un romanzo – certo, la sua versione del “grande” romanzo palestinese, intitolato Al-Shawk wa’l Qurunful (La spina e il garofano), che narra di un giovane nazionalista che si arruola in un gruppo islamista per, ovviamente, “buttare gli ebrei in mare”. Insomma, non esattamente un’opera pacifista.
La liberazione: un lupo libero tra le pecore
Nel 2011, Sinwar uscì di prigione grazie a uno scambio di prigionieri, il famoso accordo per il rilascio del soldato israeliano Gilad Shalit. Israele liberò 1.027 detenuti in cambio di un solo uomo. Un pessimo affare? Decisamente. Una settimana dopo il suo rilascio, Sinwar apparve in televisione e dichiarò che Hamas avrebbe dovuto rapire altri soldati per liberare più palestinesi. Non aveva imparato niente dai suoi anni in prigione, o meglio, aveva imparato troppo: come manipolare, ingannare e, soprattutto, come aspettare il momento giusto per colpire.
L’ascesa al potere: un leader spietato
Nel 2017, Sinwar divenne il leader politico di Hamas nella Striscia di Gaza, succedendo a Ismail Haniyeh, che fu “promosso” al comando del movimento all’estero. Per chi si illudeva che Sinwar potesse essere un “moderato”, arrivarono subito brutte notizie: il suo comando fu segnato da una repressione brutale dei nemici interni, sospetti collaboratori e persino membri del suo stesso movimento. Nel 2016, fece giustiziare Mahmoud Ishtiwi, uno dei capi militari di Hamas, per “crimini morali”, un eufemismo che mascherava accuse mai confermate di collaborazione con Israele, o, secondo altre voci, una relazione omosessuale. Per Yahya, la moralità e la lealtà a Hamas andavano di pari passo: chi tradiva, moriva.
Il 7 ottobre 2023: la mente del massacro
E poi arriviamo al famigerato 7 ottobre 2023, una data che resterà impressa nella storia come uno dei momenti più bui del conflitto israelo-palestinese. Yahya Sinwar fu la mente dietro l’attacco terroristico che costò la vita a oltre 1.200 israeliani, tra cui donne e bambini, e portò al rapimento di circa 250 persone. Un piano orchestrato nei minimi dettagli, che ha messo in ginocchio Israele e sconvolto il mondo. Per Sinwar, questo era il culmine della sua carriera: l’uomo che aveva passato una vita a odiare Israele ora poteva vantarsi di aver inferto un colpo mortale.
Il nemico numero uno di Israele: una morte annunciata
Dopo quell’attacco, per Israele, Sinwar era “un uomo morto che cammina”. Lo stesso Benjamin Netanyahu lo definì un “piccolo Hitler”. Sinwar sparì, come un topo nei tunnel sotterranei di Gaza, ma il suo destino era segnato. L’IDF lo ha ucciso il 16 ottobre a Rafah, eliminando il leader simbolo di Hamas in una delle operazioni più celebrate dell’intera guerra. Certo, togliere di mezzo Sinwar è stato un successo tattico, ma non illudiamoci: il problema Hamas non muore con un solo uomo, anche se era il suo capo più feroce.
Un’eredità di sangue e macerie
In conclusione, Yahya Sinwar era un uomo che ha dedicato la sua vita a una sola missione: distruggere Israele, a ogni costo. La sua eredità è fatta di sangue, odio e rovine. Hamas dovrà ora trovare un nuovo leader, qualcuno che riempia le sue scarpe insanguinate. Ma Sinwar resterà nella memoria come un uomo che ha portato sofferenza non solo ai suoi nemici, ma anche al suo stesso popolo, intrappolato in una spirale di violenza senza fine.
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