L’orrore come passatempo. È questa l’immagine che più disgusta, quella che ti si appiccica addosso come una colpa collettiva. A trent’anni dall’assedio di Sarajevo, mentre la città cercava di ricucire le sue ferite, ecco che riaffiora un capitolo talmente infame da sembrare incredibile: turisti-cecchini, gente che avrebbe pagato per sparare sui civili, trasformando la guerra in un gioco, il dolore in intrattenimento, la morte in un’esperienza da raccontare al ritorno. Non un’esagerazione, non la trama di un thriller malato, ma uno scenario oggi al centro di un’inchiesta italiana che sta crescendo, raccogliendo documenti, testimonianze e nuove conferme. È come se Sarajevo tornasse a bussare alle porte dell’Europa, ricordando a tutti che il male non sempre arriva travestito da ideologia: qualche volta arriva in giacca e cravatta, con un biglietto aereo in mano e la voglia di “provare qualcosa di forte”.
Il fatto – e la vergogna
Durante gli anni bui dell’assedio – dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996, il più lungo assedio in Europa dalla Seconda guerra mondiale, con 1.425 giorni di inferno e oltre undicimila civili massacrati – le colline intorno a Sarajevo brulicavano di postazioni di cecchini. Era il regno della paura quotidiana, dei cartelli “Pazi – Snajper!”, delle corse disperate per attraversare una strada. Eppure, tra quel groviglio di morte, secondo nuove ricostruzioni, sarebbe accaduto qualcosa di ancora più sordido: civili stranieri, facoltosi e annoiati, avrebbero pagato per aggiungersi ai tiratori, come fosse un safari esotico. Una follia umana che supera ogni immaginazione.
Come funzionava l’orrore
Le testimonianze parlano di viaggi organizzati, di spostamenti verso Belgrado e poi verso le postazioni intorno alla città bosniaca. Si riferisce persino di un “listino” dei bersagli, con prezzi diversi a seconda della difficoltà o – ed è terribile anche solo scriverlo – dell’età dell’obiettivo. Come se le vite umane potessero essere messe a catalogo, valutate, vendute.
Nell’ombra delle colline, mentre Sarajevo tentava di restare viva, qualcuno avrebbe imbracciato un fucile per puro divertimento. E il solo fatto che questa ipotesi sia oggi suffragata da testimonianze, dossier e documenti è già una condanna morale grande come una sentenza.
L’inchiesta italiana e gli ultimi sviluppi
Oggi la procura di Milano ha aperto un fascicolo con accuse pesantissime: omicidio volontario aggravato da crudeltà e motivi abietti. L’indagine procede, si amplia, apre nuovi scenari. C’è un testimone chiave, un ex appartenente ai servizi bosniaci, che sostiene di aver segnalato già all’epoca la presenza di questi “forestieri col fucile”, ma che allora tutto sarebbe stato ignorato o messo a tacere.
Da ciò che emerge negli ultimi giorni, l’inchiesta sta valutando non solo il ruolo di eventuali cittadini italiani, ma anche il coinvolgimento di miliziani serbo-bosniaci che avrebbero accompagnato e protetto questi “ospiti”. La giustizia bosniaca, finora non formalmente coinvolta, segue gli sviluppi con crescente attenzione, mentre associazioni di sopravvissuti chiedono verità e, soprattutto, memoria.
Il dato politico e morale è chiarissimo: Sarajevo non è un ricordo da anniversario, è un richiamo costante. E oggi, con questa vicenda, ci chiede di guardare negli occhi un’Europa che spesso preferisce dimenticare le proprie ombre.
Perché questa storia ci riguarda ancora
Non è questione balcanica, non è una pagina lontana. È una ferita che riguarda l’Occidente, la sua coscienza, la sua idea di umanità. Perché se davvero qualcuno è arrivato fin lì per uccidere “per gioco”, allora significa che la guerra non è solo fatta da chi l’ha combattuta, ma anche da chi l’ha consumata come un prodotto da banco, come un’esperienza estrema da pagare e condividere.
E Sarajevo, che ogni giorno viveva inginocchiata sotto i colpi dei cecchini, ci ricorda che il male peggiore non è solo sparare, ma farlo senza un motivo, senza una bandiera, senza una logica: soltanto per provare qualcosa.
La sofferenza come intrattenimento
L’inchiesta andrà avanti, emergeranno nomi, responsabilità, coperture e forse omissioni. Ma la verità che già conosciamo è sufficiente per provare disgusto: qualcuno ha trasformato la sofferenza in intrattenimento. E questo, più ancora della guerra, è il vero abisso morale.

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