Ci sono pagine della nostra storia recente che fanno ancora male. Non soltanto per ciò che è accaduto, ma per ciò che non ci è stato detto. In quei giorni di febbre nazionale, quando l’Italia scopriva di essere diventata l’epicentro europeo del contagio, i cittadini si aggrappavano alle parole del ministro della Salute, convinti che dietro quelle frasi rassicuranti ci fosse una strategia, un piano, una guida sicura. Oggi, grazie alla commissione d’inchiesta sul Covid, scopriamo che dietro quelle stesse frasi si nascondeva invece qualcosa di diverso: un velo tirato per coprire ritardi, improvvisazioni e un piano che esisteva, ma che fu tenuto nascosto persino all’Europa e all’OMS. E allora la domanda diventa d’obbligo: se c’era un piano, perché non è stato mostrato? E se non c’era, perché dirlo?
L’annuncio che non regge alla prova dei fatti
Il 21 febbraio 2020, mentre il Paese si preparava alla tempesta, Roberto Speranza si presenta davanti alle telecamere e scandisce quelle parole che molti ancora ricordano: «L’Italia è pronta. Avevamo preparato nei giorni scorsi un piano». Una sicurezza ostentata come se tutto fosse sotto controllo. E invece no. Perché quel “piano” non era certo il vecchio pandemico del 2006, né un aggiornamento completo e operativo. Era qualcos’altro. Era il famoso “piano Merler”, elaborato su richiesta del CTS, presentato davanti al ministro il 20 febbraio, e poi fatto sparire sotto uno spesso strato di riservatezza.
Che cos’era il piano Merler
Il cosiddetto “piano Merler” non era un documento qualunque, né un semplice appunto tecnico. Era un insieme di modelli matematici, proiezioni epidemiologiche e scenari di diffusione elaborati da Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler, uno dei massimi esperti italiani di modellizzazione delle epidemie. Su richiesta dell’Istituto Superiore di Sanità e del Comitato Tecnico Scientifico, Merler analizzò l’andamento del contagio in Cina, studiò il comportamento del virus, e costruì tre scenari di impatto sul territorio italiano. Non era una profezia, ma uno strumento cruciale per capire la velocità del contagio, il numero previsto dei ricoveri, la pressione sulle terapie intensive e la necessità urgente di misure drastiche. Fu presentato al CTS l’11 e poi il 20 febbraio, alla presenza dello stesso ministro Speranza. E qui sta l’aspetto decisivo: il piano non solo esisteva, ma era stato già discusso ai massimi livelli, ben prima dell’arrivo della missione OMS-ECDC. Era uno strumento che poteva fare la differenza, perché permetteva di anticipare, non inseguire. Eppure rimase fermo nella nebbia della riservatezza, invece di diventare la base per una risposta chiara, coordinata e condivisa.
La missione OMS-ECDC e la grande omissione
Solo tre giorni dopo, il 24 febbraio, Speranza accoglie in Italia la missione congiunta OMS-ECDC. Tecnici, epidemiologi, funzionari arrivati per capire, aiutare, coordinare. Ma quel piano, discusso in presenza del ministro, non viene mostrato, non viene consegnato, non viene nemmeno citato. Si dirotta la discussione, si parla d’altro, si offre un quadro incompleto dell’emergenza. È una scelta che pesa come un macigno, perché negare informazioni a chi è lì per aiutarti significa indebolire la risposta, rallentare la reazione, aumentare la confusione.
E mentre la missione internazionale lavora alla cieca, nelle stanze del ministero si firma un accordo di riservatezza che vincola alla segretezza persino l’ex numero due dell’OMS, Ranieri Guerra. In una mail del 13 marzo 2020 lo scrive lui stesso: «Ho dovuto firmare un severo accordo di riservatezza e non divulgazione. Apriranno i documenti progressivamente per non creare ulteriore allarme». Parole che gelano il sangue, perché dimostrano che la priorità non era mettere le carte sul tavolo, ma controllare la narrazione.
Il paradosso del piano segreto
La commissione d’inchiesta ha poi chiarito che il piano Merler esisteva eccome. Che venne discusso. Che descriveva scenari di contagio e impatti sul sistema sanitario. E che proprio quel documento avrebbe potuto dare all’OMS e all’ECDC indicazioni preziose per calibrare la risposta italiana. Invece no. Rimase in un cassetto fino a quando un ricorso di Galeazzo Bignami, deputato di Fratelli d’Italia, al TAR non costrinse il ministero a tirarlo fuori. Un piano segreto, nascosto, quasi imbarazzante da esibire: perché?
Perché il piano Merler fu nascosto
A questo punto diventa inevitabile chiedersi perché quel documento, discusso ai massimi livelli e potenzialmente decisivo per orientare le prime settimane dell’emergenza, sia stato tenuto lontano non solo dagli italiani, ma persino dagli esperti dell’OMS e dell’ECDC arrivati apposta per aiutare il Paese. La risposta che emerge dalle audizioni e dalle mail interne è semplice e insieme devastante: il piano Merler smentiva la narrazione pubblica del governo, mostrava un’Italia tutt’altro che pronta, e documentava con precisione la rapidità del contagio e l’urgenza di misure immediate. Renderlo pubblico avrebbe significato riconoscere che quelle misure non erano state prese, o che erano state prese in ritardo.
Era un documento che toglieva ogni alibi, perché dimostrava che lo Stato sapeva, e che non aveva fatto pienamente ciò che sapeva di dover fare. E c’è di più: la gestione dell’emergenza era ormai nelle mani di un “comando politico” che controllava la comunicazione almeno quanto l’azione, e un piano tecnico condiviso con organismi internazionali avrebbe ridotto quello spazio di manovra. Parlare di “paura del panico” è comodo, ma in realtà il panico da evitare era quello istituzionale, non quello dei cittadini. Era il timore di ammettere che la prontezza ostentata davanti alle telecamere non corrispondeva alla realtà delle cose. In altre parole, il piano Merler fu nascosto non per proteggere il Paese, ma per proteggere chi lo governava.
La responsabilità politica e morale
Lo schema è chiaro. Da una parte dichiarazioni pubbliche trionfanti, dall’altra riservatezza, piani segretati, informazioni trattenute. Da una parte l’Italia raccontata come “pronta”, dall’altra un sistema preso in contropiede, costretto a rincorrere un nemico già entrato dalla porta principale. E questa doppia narrazione, questo gioco di specchi, questa volontà di proteggere la reputazione a scapito della trasparenza, pesa ancora oggi.
Resta la domanda finale, quella più drammatica, quella che nessuno vorrebbe pronunciare ma che ormai non si può evitare: la trasparenza avrebbe potuto salvare delle vite?
La capogruppo FdI in commissione, Alice Buonguerrieri, lo ha detto senza giri di parole: «Speranza ha ripetutamente mentito agli italiani per coprire l’impreparazione del governo Conte». Una frase durissima, ma oggi più che mai fondata. Perché i fatti raccontano questo: non si è sacrificata solo la verità, ma forse qualcosa di ancora più prezioso.
Una lezione che non va archiviata
Di fronte a tutto ciò, l’indignazione non basta. Occorre custodire la memoria. Perché il modo in cui è stata gestita l’emergenza non riguarda soltanto il passato: ci dice che tipo di Paese vogliamo essere. Un Paese adulto affronta la verità, anche quando è scomoda. Un Paese immaturo la nasconde dietro le conferenze stampa.
E allora ricordiamolo bene: quando si gioca con la trasparenza, si gioca con la fiducia. E quando si perde la fiducia dei cittadini, si perde tutto. L’Italia merita molto più di questo.

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