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Dopo che la Thunberg ha dichiarato di farsi da parte, manca un nome forte a cui passare il testimone di eroina green. Le candidate non mancano. Ecco chi sono e che cosa vogliono.

AAA Cercasi disperatamente nuova Greta. Da quando l’icona svedese dell’ortodossia green ha fatto un passo indietro, uscendo di scena, è scattata la caccia al suo successore. «È ora di consegnare il megafono a coloro che hanno storie da raccontare» ha detto. Ma è evidente che, arrivata a 20 anni, la sua forza d’urto molto basata sull’età acerba si sta affievolendo. Greta Thunberg ha imposto una tipologia precisa dell’attivista capace di far inginocchiare al suo cospetto i grandi della terra: minorenne, lontana da qualsiasi stereotipo glamour, convinta fino all’accanimento e innovativa nella protesta. L’immagine di lei seduta davanti al Parlamento svedese, come prototipo di quello che sarà poi lo «sciopero scolastico per il clima», ha «bucato» i media. A corredo ci sono i toni sferzanti, le visioni apocalittiche e una soluzione estrema per salvare il pianeta che si riassume in due assiomi: addio ai combustibili fossili, addio alle pratiche ecologicamente non sostenibili.

Questo è il modello Greta, pompato dalla stampa «green oriented» (il Time l’ha eletta personaggio dell’anno 2019 ed è stata candidata al Nobel per la pace) che ora però è difficile da replicare. Il marketing, si sa, macina presto i suoi idoli, e deve continuamente crearne di nuovi. La successione non sarà facile. Non perché manchino i candidati e tantomeno i soldi per identificare il prossimo «campione» pompandovi attorno il consenso mediatico. Per ora c’è un deficit di idee, e gli attivisti «imbrattatori» di opere d’arte non sono riusciti finora a conquistare un consenso plebiscitario nell’opinione pubblica. Inoltre la crisi energetica e la rivalutazione delle fonti fossili (anche la verdissima Germania ha dovuto riscoprire il carbone), hanno spuntato le armi alla propaganda ambientalista estremista.

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Ma chi sono gli aspiranti epigoni di Greta? Un’autocandidatura c’è stata in occasione della COP27 di Sharm El Sheik. Sophia Kianni, americana con origini iraniane ed ex coordinatrice di Fridays For Future, il movimento di Greta, ha approfittato dell’assenza della Thunberg per impossessarsi della scena. Ma della semplicità dell’icona svedese ha ben poco. Vent’anni, look da influencer, Sophia Kianni sembra il frutto di certi ambienti dell’intellighenzia democrat: studia scienze del clima e politiche pubbliche alla Stanford University (una delle 5 università più prestigiose degli Stati Uniti), è stata nominata «advisor per il clima» dal Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres e ha fondato a soli 18 anni la non-profit Climate Cardinals, composta da 8 mila volontari in oltre 40 Paesi.

Tiene conferenze alle ricchissime Columbia University, UC Berkeley, Emory University e Harvard University e i suoi articoli sono comparsi su Forbes, Cnn, Business Insider, Bbc, The Guardian, Nbc e Washington Post. Niente male. Finanziatori? Non pervenuti. A ogni intervista ripete spavalda che ha cominciato «educando» la sua famiglia che ora «guida meno e spegne le luci».

Alcuni media tifano invece per Vanessa Nakate, 25 anni, che intervenendo al Youth4Climate di Milano, si è commossa parlando delle vittime delle alluvioni causate dai cambiamenti climatici in Uganda, conquistando la stampa. Con Greta ha in comune di aver cominciato manifestando di fronte al Parlamento ugandese con un cartello che recitava: «Amore verde, pace verde». Laureata in economia aziendale alla Makerere University Business School, ha inserito i Paesi africani, che fino a quel momento non erano rappresentati, nel movimento ambientalista globale. Ha fondato lo Youth for Future Africa e ha sfilato nei consessi economici più importanti, dal Forum economico mondiale di Davos alla Desmond Tutu International peace lecture, arrivando alla lista delle 100 donne più influenti dell’anno stilata dalla Bbc. Ripete che «l’Africa ha la quota più bassa di emissioni, eppure paga pesantemente per la crisi climatica». La soluzione? Non pervenuta. Ci sono poi le green influencer, che alla piazza preferiscono Instagram e dispensano consigli sulla quotidianità sostenibile a colpi di spazzolini di bambù e dentifrici fatti in casa, bottiglie di latta riutilizzabile e abiti vintage.

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Mikaela Loach, ventenne inglese si definisce etical fashion blogger, veste solo brand etici e si lava i denti con le compresse dentifricie Dent Tabs; Blue Ollis, inglese, classe 1991, ha un canale YouTube con oltre 70 mila sottoscrittori, dove dispensa consigli su uno stile di vita minimalista con arredamento essenziale e cucina vegana, colazione a base di alimenti integrali e vegetali e suggerimenti per ridurre al massimo i rifiuti.

Nella gallery delle attiviste non mancano le italiane. Federica Gasbarro, classe 1995, è il nome più conosciuto. Portavoce del movimento romano dei Fridays for Future, ha partecipato allo Youth4Climate del Cop26 in rappresentanza dell’Italia e ha parlato di crisi climatica davanti a Papa Francesco. Ma mentre Greta criticava i politici, Gasbarro è stata tentata da un posto in Parlamento e si è candidata con Impegno Civico di Di Maio. Non ha sfondato, segno che l’attivismo mal si concilia con il Palazzo.

Tanto fermento però non ha ancora prodotto una nuova Greta. «Si sente il bisogno di colmare un vuoto all’interno della politica ma c’è anche leggerezza nelle visioni. La voglia di cambiamento tipico dei giovani ha poca concretezza» commenta Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia. La sua analisi si spinge oltre: «È un ecologismo vuoto che crea illusioni destinate a cadere, è l’espressione della crisi globale della sinistra».

Reclamano l’eredità di Greta i gruppi di attivisti che usano l’arma della disobbedienza civile. Blocchi stradali, mani incollate alle opere d’arte, vernice sugli edifici delle istituzioni fanno parte della strategia comunicativa di Extinction Rebellion, Just Stop Oil e Ultima Generazione. Gli intellettuali e la stampa di sinistra li seguono con attenzione. Il Guardian, faro del pensiero progressista inglese, con un test su un campione di 1.382 persone ha rilevato che il 66 per cento è favorevole alle azioni di disobbedienza civile. E su di loro scommettono grandi finanziatori come il Climate Emergecy Fund, organizzazione non-profit di Los Angeles fondata da Aileen Getty, erede della famiglia Getty che sul Guardian ha preso le difese degli attivisti di Just Stop Oil, e dalla figlia dell’ex senatore Robert Kennedy, Rory Kennedy. E quando i grandi capitali si muovono non è mai per operazioni di breve termine.

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