I diari di Giovanni Falcone, la strage di Capaci e una domanda: perché non sono mai stati diffusi integralmente?
Perché non vengono pubblicati integralmente i “diari” di Giovanni Falcone? Cosa ne impedisce, a distanza ormai di decenni, la diffusione? Non sarebbe giunto il momento, dopo anche la sentenza della Cassazione che ha escluso la trattativa fra lo Stato e la mafia per far cessare le stragi del biennio 1992-93, di una operazione verità? Ieri, nel giorno del 31esimo anniversario della strage di Capaci, dove persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta, è tornato ancora una volta di attualità il mistero che circonda i diari del magistrato siciliano, oggetto in passato di diverse interrogazioni parlamentari rimaste senza risposta.
Pubblicati, in minima parte, un mese dopo la strage, si trovano attualmente sotto sequestro negli uffici della Procura di Palermo e della Procura di Caltanissetta. È stato ormai accertato che Paolo Borsellino sapeva che quegli appunti esistevano e che se Falcone li aveva redatti era perché i fatti da lui narrati e affidati alla memoria di uno scritto avevano grande importanza. E a tal proposito aveva detto al collega Antonio Ingroia che “Giovanni non aveva l’abitudine di tenere un diario. Se ha deciso di appuntarsi queste frasi e questi riferimenti a questi episodi, vuol dire che dietro questi fatti e questi episodi c’è molto di più di quanto non appaia”. Per questo, in quei 57 giorni di “sopravvivenza” Borsellino li aveva studiati, ne aveva parlato anche pubblicamente giungendo, in ultimo (così riteneva), vicino alla verità.
Il 24 giugno del 1992, un mese dopo la strage di Capaci e prima di quella di via D’Amelio, la giornalista di Repubblica Liana Milella, allora al Sole 24 Ore, dopo che si discuteva da giorni della loro esistenza e veridicità, riferì che quei diari esistevano e che era stato Falcone a consegnarglieli nella seconda settimana del mese di luglio dell’anno precedente. Si trattava, in particolare, di due fogli A4 nei quali erano annotati 14 punti, 14 momenti di tensione vissuti da Falcone con il procuratore di Palermo Pietro Giammanco nei mesi precedenti al suo trasferimento al Ministero di grazia e giustizia.
L’ultimo risaliva al 6 febbraio 1991. In realtà, però, non erano solo quei 14 i punti annotati da Falcone e quindi egli non aveva smesso di scrivere in quella data. Infatti, sempre in quei giorni, sul quotidiano La Repubblica, il giornalista Giuseppe D’Avanzo aveva pubblicato un articolo nel quale menzionava proprio i diari di Falcone (un articolo gemello era uscito sul Corriere della Sera, a firma di Felice Cavallaro). D’Avanzo commentava l’arrivo alla Procura di Caltanissetta, che indagava sulla strage di Capaci, dei dischetti che avrebbero dovuto contenerli e le risposte date dall’allora procuratore Salvatore Celesti che, a fronte delle numerose domande dei giornalisti sulla esistenza e veridicità di quegli scritti di cui tanto si parlava, dichiarava “risolto il mistero”, affermando di essere in possesso di tutto il materiale rinvenuto.
L’articolo era molto dettagliato e il suo autore, poi morto nel 2011, sembrava avere visto quei diari: descriveva il contenuto di quelle annotazioni e ne commentava alcune, che appaiono, oggi, particolarmente significative. Ciò che più rileva è che molte di esse non erano tra quelle annotate dalla collega del Sole 24 Ore. Una volta trasferito in Procura come aggiunto, Falcone aveva, aggiornandolo sul computer, un “diario”. “Nessun veleno o tono rancoroso. Solo fatti e ancora fatti destinati ad una privatissima memoria”, scrisse D’Avanzo, ricordando che lo aveva svelato il magistrato Giuseppe Ayala, ne aveva parlato informalmente Paolo Borsellino ai giudici di Caltanissetta, e lo aveva confermato Leonardo Guarnotta, giudice istruttore del pool di Palermo. “Il diario non contiene nessuna informazione che possa aiutare le indagini.
Nulla di “penalmente rilevante”, dunque, ma molte circostanze che potrebbero (e dovrebbero) essere vagliate dal Consiglio superiore della magistratura”, si spinse a scrivere D’Avanzo, riportando le frasi di Ayala. “Giovanni mi disse un giorno: «Se mi succede qualcosa, tu sai che c’ è questa mia memoria». Io tagliai corto: «Dio mio, Giovanni… sempre di morte dobbiamo parlare…» Ma in un’occasione certamente ne parlò alla presenza anche di Borsellino e Guarnotta”, aveva detto Ayala.
E Guarnotta: “Ricordo perfettamente l’occasione di cui parla Ayala. Giovanni era stato già trasferito a Roma. Erano gli ultimi giorni della sua permanenza a Palermo. Nel suo ufficio c’eravamo io, Paolo (Borsellino) e Giuseppe (Ayala). Discutevamo delle ragioni che lo avevano spinto ad andar via. Ad un certo punto, Giovanni accese il computer, digitò qualcosa sulla tastiera e ci lesse un brano di quel suo diario, ce lo lesse per dimostrarci che non se ne andava di sua spontanea volontà, che era stato costretto ad andar via…”
Paolo Pandolfini