L’11 gennaio 1944 segna un momento cruciale nella storia dell’Italia fascista sotto la Repubblica Sociale Italiana (RSI). Il contesto di questo giorno tragico affonda le sue radici nel processo di Verona, svolto nell’omonima città veneta, influenzato dalla politica e dalla tensione del periodo bellico.
Il processo di Verona, condotto dall’8 al 10 gennaio 1944, si svolse in Castelvecchio, nella sala da concerto degli Amici della Musica, luogo simbolico che aveva ospitato il I Congresso nazionale del Partito Fascista Repubblicano (PFR) nel novembre dell’anno precedente. Al centro di questo procedimento giudiziario vi erano sei membri del Gran Consiglio del Fascismo, accusati di aver sfiduciato Benito Mussolini dalla carica di Presidente del Consiglio durante la storica seduta del 25 luglio 1943.
Gli eventi in Germania
Dopo essere stato arrestato a Villa Savoia, Mussolini considerava conclusa la sua carriera politica e sembrava rassegnato all’idea di ritirarsi dalla scena. Tuttavia, il 12 settembre 1943, la sua sorte cambiò radicalmente quando fu liberato al Gran Sasso dai paracadutisti tedeschi. Trasferito in Germania, Mussolini mostrò inizialmente scarsa volontà di riprendere la guida del fascismo rinato, e non sembrava nutrire desideri di vendetta verso i gerarchi che lo avevano sfiduciato. Tuttavia, un incontro cruciale con Hitler il 15 settembre lo portò a un “richiamo alla realtà”, durante il quale dovette accettare i piani del Führer che includevano il processo e la condanna a morte dei gerarchi che lo avevano sfiduciato.
Nonostante i tentativi di Mussolini di mitigare la posizione di Ciano, il marito di sua figlia Edda, durante il colloquio con Hitler, il Führer fu irremovibile, sottolineando che ogni indulgenza nei confronti dei “traditori dell’Italia” avrebbe avuto serie ripercussioni.
Il Congresso di Verona
Durante il Congresso di Verona del 14 novembre 1943, fu proposto di costituire il Tribunale speciale per la difesa dello Stato della RSI per processare i firmatari dell’Ordine del giorno Grandi. I giudici, nominati direttamente dal Partito Fascista Repubblicano, erano nove fascisti “di provata fede”, pronti a pronunciare sentenze di morte, in particolare nel caso di Galeazzo Ciano. Questa mossa fu criticata aspramente, con Mussolini accusato di tergiversare e di cercare in realtà di salvare gli imputati e Ciano.
Gli arresti e l’attività di Cersosimo
La cattura degli imputati fu un processo graduale. Galeazzo Ciano, ad esempio, fu trasferito da Monaco di Baviera a Verona il 17 ottobre 1943 e imprigionato nel carcere degli Scalzi. Altri imputati, come Giovanni Marinelli, Carlo Pareschi, Luciano Gottardi e Tullio Cianetti, furono arrestati nelle loro abitazioni a fine settembre e, dopo un periodo a Regina Coeli a Roma, trasferiti a Padova, e infine a Verona. Emilio De Bono, per disposizione di Mussolini, rimase nella sua casa fino all’inizio del processo, quando fu trasferito a Verona.
Il giudice istruttore Vincenzo Cersosimo si occupò di raccogliere la documentazione per l’istruttoria, trovando difficoltà nell’accedere ai verbali del Gran Consiglio e dovendo quindi basarsi su dichiarazioni degli imputati e ritagli di giornale. L’istruttoria completata il 29 dicembre 1943 costituì la base per il processo.
Le udienze e le condanne
Il processo iniziò l’8 gennaio 1944, in un clima teso, con la presenza del pubblico e un’intensa sorveglianza. Durante le udienze, furono presentate varie eccezioni e testimonianze. Il “memoriale” di Ugo Cavallero fu uno degli elementi chiave, insieme alle interrogazioni agli imputati e alle requisitorie. In particolare, la requisitoria del pubblico ministero Andrea Fortunato fu memorabile per la sua durezza.
Le condanne furono pronunciate con metodi discutibili, e tutti gli imputati presenti vennero dichiarati colpevoli. Tullio Cianetti ricevette una pena ridotta a trent’anni di reclusione, mentre gli altri cinque – Galeazzo Ciano, Emilio De Bono, Luciano Gottardi, Giovanni Marinelli e Carlo Pareschi – furono condannati a morte.
La questione delle domande di grazia e la fucilazione
Le domande di grazia presentate dai condannati scatenarono un conflitto di competenze e una serie di discussioni tra le autorità fasciste. Alla fine, le domande furono rigettate, e l’11 gennaio 1944, i condannati furono fucilati al poligono di tiro di forte San Procolo (nella foto) da un plotone di 30 militi fascisti.
Gli imputati assenti, condannati a morte in contumacia, furono Dino Grandi, Giuseppe Bottai, Luigi Federzoni, Cesare Maria De Vecchi, Umberto Albini, Giacomo Acerbo, Dino Alfieri, Giuseppe Bastianini, Annio Bignardi, Giovanni Balella, Alfredo De Marsico, Alberto De Stefani ed Edmondo Rossoni; nessuno di loro venne catturato dalle autorità repubblichine e tutti sopravvissero alla Seconda guerra mondiale.
Questo episodio rappresenta non solo un momento drammatico nella storia italiana, ma anche un simbolo delle dinamiche di potere, della violenza e della tragedia che hanno caratterizzato il periodo del fascismo e della Seconda Guerra Mondiale in Italia. Le implicazioni politiche, legali e morali del processo di Verona e delle sue conseguenze sono ancora oggetto di studio e dibattito tra storici e analisti politici.
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