Ecco il PD, un partito che sembra essersi iscritto a un corso accelerato di autodistruzione politica, con lezioni pratiche di dispersione di voti e teoria avanzata su come complicarsi la vita. Ultimo capitolo di questa saga tragicomica è l’ennesima sconfitta elettorale, questa volta in Basilicata (orfano della chiavi-star Speranza, altrimenti affaccendato nel Giro d’Italia degli insulti), terra di storia, cultura e, apparentemente, antipatia cronica verso i dem. Ma non finisce qui, perché al Nazareno, quel luogo dove i sogni vanno a morire, la questione ora si sposta su un tema cruciale per il futuro della nazione: l’abolizione della parola “segretario”. Sì, avete letto bene.
La proposta di Morassut: da segretario a portavoce
Roberto Morassut, in un eccesso di fervore rivoluzionario e forse stimolato da un caffè troppo forte, propone di abolire il termine “segretario” perché troppo stalinista. Durante un’intervista con Radio Radicale, quasi inciampando nelle proprie parole, Morassut ha lanciato questa proposta, forse sperando di scatenare una rivoluzione lessicale. Povera Elly Schlein, già sbianchettata dal simbolo elettorale, ora deve anche digerire il downgrade a semplice “portavoce” del partito. Il giurassico esponente dem, con una noncuranza quasi irritante, ha dichiarato che non avrebbe avuto problemi con il nome della Schlein sul logo elettorale, ma che, ehilà, forse è il momento di rivoluzionare tutto, compresi i titoli.
Un cambiamento epocale?
Morassut, con il tono di chi ha appena scoperto l’acqua calda, suggerisce che il termine “segretario” è un retaggio staliniano, una reliquia del tempo in cui Stalin, ancora capo, decise di mantenere questo titolo per tenere il partito sotto controllo. Secondo Morassut, quindi, è giunto il momento di modernizzare, di rendere il linguaggio più inclusivo e rappresentativo del rapporto tra i leader e la base. Portavoce, quindi, sembrerebbe il termine perfetto, evocativo di una sintesi tra la comunità e il suo leader, un leader che è voce del popolo e non suo supremo timoniere.
La reazione interna e l’ironia della politica
Nel frattempo, il PD si dibatte tra l’ironia di Fratelli d’Italia, che si compiace di esibire il proprio leader Giorgia Meloni senza alcuna sbianchettatura, e le lacerazioni interne, con mezzo partito che sembra più interessato a discutere di semantica che di strategie elettorali. Come se non bastasse, la proposta di Morassut, apparentemente innocua, promette di aprire nuovi fronti di battaglia all’interno di un partito già profondamente diviso. C’è chi, come sempre, vede nel cambiamento una manovra distensiva e chi, invece, lo interpreta come un ulteriore passo verso l’irrilevanza politica.
Il PD errante tra le sue rovine
In un panorama politico che richiederebbe unità, visione e un solido legame con le esigenze reali degli elettori, il PD sceglie di impegnarsi in battaglie lessicali. Forse è più facile, forse è meno doloroso che affrontare la realtà di una sconfitta dopo l’altra. Ma mentre i leader discutono se essere chiamati “segretari” o “portavoce”, i cittadini si chiedono se ci sia ancora qualcosa, in questo partito, che parli davvero al paese reale.
In conclusione, la saga del PD sembra non avere fine. Tra restyling lessicali e cicatrici elettorali, il partito naviga a vista in un mare di incertezze, forse dimenticando che al di là delle parole ci sono i fatti, e sono quelli che alla fine contano. Ma in questa tragicommedia all’italiana, chi può davvero dire qual sarà il prossimo atto? Forse addirittura l’ultimo?