Ah, che bella immagine di progresso: giovani studenti che alzano la mano e mimano una pistola, per di più una P38, quel lugubre simbolo della violenza brigatista. Sarebbe quasi ridicolo, se non fosse tragico. Ci si potrebbe far due risate amare, se non fosse che questo gesto, questa scenetta grottesca da teatrino dell’assurdo, è l’ennesimo segnale che la nostra società sta precipitando in un abisso di incoscienza e irresponsabilità.
Un gesto che non è una ragazzata
Partiamo dal fatto: a Torino, durante una manifestazione, un gruppetto di giovanotti decide di trasformare la protesta in una sceneggiata degna del peggior film anni Settanta, scimmiottando il gesto della P38. Qualcuno, nella sua infinita bontà, dirà: “Ma sono ragazzate, che sarà mai!” Ecco, sarà mai il caso di finirla con questa retorica buonista? Di smetterla di giustificare ogni cosa come “un gioco”, come “un simbolo vuoto”? La realtà è che il gesto non è vuoto, non è innocuo, e certamente non è casuale. Evoca un passato di sangue, di piombo, di terrore. La P38 non è un simbolo qualunque; è il sigillo di un’epoca in cui la violenza era la lingua franca di certi rivoluzionari falliti, incapaci di dialogare se non col piombo delle loro pallottole.
L’allarme ignorato: la storia insegna, ma noi siamo pessimi studenti
“Non esageriamo” dicono i soliti benpensanti. “Gli anni Settanta sono lontani. Oggi la società è diversa”. Oh, certo, diversa. Infatti, le Brigate Rosse sono roba da libri di storia, no? Ma non fatevi ingannare: i semi di quell’odio non sono mai stati estirpati. Sono lì, nel sottosuolo della società, pronti a germogliare appena trovano un po’ di terreno fertile. E il terreno fertile, cari signori, lo stiamo annaffiando con cura.
Guardate i cortei: slogan urlati senza sapere il loro significato, simboli che riemergono come spettri, rabbia diffusa senza scopo né direzione. Non serve una società in crisi estrema per generare terrorismo. L’Italia degli anni Settanta era in pieno boom economico, con salari in aumento e diritti sociali in espansione. Eppure, i giovani di allora si sono lasciati sedurre dalla follia ideologica di chi voleva distruggere il sistema. Perché? Perché c’è sempre qualcuno che non si riconosce nel mondo in cui vive, che odia la modernità, che preferisce distruggere piuttosto che costruire. Oggi, quel “qualcuno” ha trovato nuovi miti, ma la sostanza non cambia.
La violenza come mito eterno
L’allarme lanciato dal ministro Nordio è chiaro: questi gesti non sono semplici provocazioni. Sono l’anticamera di qualcosa di peggiore. Prima si gioca con la violenza simbolica, poi si passa a quella reale. È successo prima, può succedere di nuovo. Il terrorismo è come un virus dormiente, pronto a risvegliarsi quando meno ce lo aspettiamo. Certo, qualcuno dirà: “Ma questi giovani non sanno nemmeno cosa stanno facendo!” Peggio ancora. Ignorano la storia, ma replicano i gesti. Non conoscono il significato della P38, ma la esibiscono con orgoglio. Questo non li rende meno pericolosi; li rende, semmai, più inquietanti.
Le nuove condizioni per il vecchio terrorismo
Oggi ci sono tutte le condizioni per una nuova esplosione di violenza ideologica. Non stiamo parlando di un revival delle Brigate Rosse, ma di qualcosa di diverso e forse persino più pericoloso. Da un lato, abbiamo la rabbia crescente delle nuove generazioni, schiacciate tra precarietà e disillusione. Dall’altro, c’è il vento del radicalismo globale, che soffia con forza da Gaza alle periferie europee. Il messianismo violento, l’odio per l’Occidente, la fascinazione per il martirio: tutti elementi che si fondono in una miscela esplosiva.
E poi c’è la cultura woke, che dall’America ha portato la convinzione che tutto ciò che esiste sia sbagliato, che la società vada abbattuta in nome di un’utopia indefinita. Non è difficile immaginare che questo odio viscerale per la civiltà occidentale possa incontrarsi con il disagio dei giovani europei e con la rabbia degli immigrati di seconda e terza generazione. È una miscela pericolosa, un cocktail molotov pronto a esplodere.
Il ruolo della politica: irresponsabilità bipartisan
In questo scenario, cosa fa la politica? Da una parte, il governo cerca di alzare la guardia, con provvedimenti che qualcuno definisce “repressivi” ma che sono semplicemente di buon senso. Dall’altra, l’opposizione sembra più interessata a giustificare gli esagitati di piazza piuttosto che a condannare certi atteggiamenti. È una vecchia storia: il fuoco si alimenta con l’indifferenza e l’irresponsabilità di chi, per convenienza politica, sceglie di minimizzare. Ma giocare con il fuoco significa, prima o poi, bruciarsi. E noi, come società, siamo già pieni di cicatrici.
Un problema di memoria collettiva
La verità è che abbiamo un problema di memoria collettiva. Abbiamo dimenticato cosa significa vivere sotto la minaccia del terrorismo. Abbiamo dimenticato gli anni di piombo, i rapimenti, le stragi. Forse pensiamo che quei tempi non possano tornare. Ma la storia, ahimè, ci insegna che nulla è impossibile. Le generazioni cambiano, ma certe dinamiche si ripetono. Perché? Perché non impariamo mai. Perché, ogni volta che un giovane alza la mano mimando una P38, qualcuno si affretta a liquidarlo come una “ragazzata”. E così, ignoriamo i segnali, ci rifiutiamo di vedere il pericolo.
Svegliamoci, prima che sia troppo tardi
Il gesto della P38 non è una semplice provocazione. È un sintomo di qualcosa di più profondo, di più oscuro. È il segnale che stiamo perdendo il controllo, che stiamo permettendo a certi simboli di ritornare, a certi miti di riaffiorare. È il segno che la società sta scherzando col fuoco, ancora una volta. E noi, come sempre, siamo troppo distratti per accorgercene.
Se vogliamo evitare di ripetere gli errori del passato, dobbiamo smetterla di minimizzare. Dobbiamo prendere sul serio questi segnali. Perché il terrorismo, la violenza ideologica, l’odio verso la società non nascono dal nulla. Si alimentano nella nostra indifferenza, nella nostra ignoranza, nel nostro rifiuto di vedere. Svegliamoci, prima che sia troppo tardi.
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