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Scienza o politica? L’UniTO sceglie la seconda

Nella sempre più stretta e squallida commistione tra scienza e politica, l’Università di Torino ha recentemente deciso di regalarci un’ulteriore perla di saggezza: “Partecipare a un bando di collaborazione con Israele? Ah, no, grazie. Meglio non farlo, vista la situazione a Gaza”. Così, con un gesto di nobiltà d’animo che farebbe impallidire anche il più stoico dei filosofi antichi, il Senato accademico, in una mossa di rara perspicacia, ha deciso di rinunciare a questa opportunità. E perché? Perché, signori miei, nel grande gioco della geopolitica globale, cosa c’è di meglio che usare la scienza come pedina?

Questa decisione, annunciata con un aplomb che sfiora l’eroico, arriva dopo che alcuni collettivi, con quella delicatezza che solitamente li caratterizza, hanno “gentilmente” chiesto il boicottaggio delle collaborazioni universitarie con Israele, bloccando una riunione per ottenere un’assemblea. È stato un momento di democrazia così puro che persino Platone, da lassù, avrebbe versato una lacrima.

E qui entra in scena il premier Giorgia Meloni, che con il suo consueto aplomb non ha esitato a definire la situazione “preoccupante”. Ma, d’altronde, cosa c’è di più normale che esprimere perplessità quando un’istituzione accademica decide di mettere la politica davanti alla scienza? Un momento, forse ho formulato male la domanda: dov’è finita l’autonomia e l’inviolabilità della ricerca scientifica?

Il ministro dell’Università, Anna Maria Bernini, non è stata da meno, esprimendo il suo disappunto per una decisione che, a suo dire, non solo è triste ma anche “sconcertante”. E non è difficile capire il perché. In un mondo ideale, le università dovrebbero essere faro di conoscenza e apertura, non bastioni di chiusura ed esclusione. Eppure, qui siamo, a contemplare l’Università di Torino che, con una decisione kafkiana, decide di chiudere le porte alla collaborazione internazionale.

Ma non finisce qui. Il dibattito si è spostato anche al Senato, dove il senatore leghista Massimo Romeo, con il fervore di un crociato in Terra santa, ha sollevato la questione, chiedendo addirittura l’intervento del governo. E mentre il centrodestra si mobilita, ricordando episodi storici e denunciando un rinascente antisemitismo, dall’opposizione arrivano condanne che variano dal sconcerto alla richiesta di scuse ai cittadini torinesi, traditi nella loro aspirazione a vivere in una città libera da oppressioni.

In questo clima di tensione, Giuseppe Conte, con la calma di un monaco zen, tenta di gettare acqua sul fuoco, ricordando che la ricerca scientifica dovrebbe trascendere le politiche del momento. Eppure, la decisione dell’Università di Torino sembra riecheggiare come un monito, un campanello d’allarme che ci costringe a interrogarci sul futuro della libertà accademica e della collaborazione internazionale. E il sindaco piddino Stefano Lo Russo? Non pervenuto.

Alla fine, quello che emerge da questo groviglio di buone intenzioni, proteste accese e dichiarazioni politiche è un quadro desolante. Un’Università, un tempo baluardo di sapere e innovazione, ridotta a campo di battaglia ideologico. La ricerca scientifica, invece di essere celebrata come ponte tra culture e nazioni, viene sacrificata sull’altare delle dispute politiche.

E così ci ritroviamo a contemplare non solo il tramonto di un’opportunità di crescita e scambio culturale ma anche il crepuscolo di un principio fondamentale: quello secondo cui la conoscenza, nella sua forma più pura e disinteressata, dovrebbe sempre e comunque trionfare sui conflitti e sulle divisioni.

È davvero questa la strada che vogliamo percorrere? È questo il futuro che desideriamo per le nostre istituzioni accademiche? Una realtà in cui la ricerca e la scienza sono ostaggio di agende politiche e di proteste ideologiche? Spero vivamente di no. Perché, al di là di ogni retorica e di ogni polemica, resta il fatto incontestabile che chiudere le porte alla collaborazione internazionale, in nome di qualsiasi causa, è una sconfitta non solo per l’Università di Torino, ma per l’intero mondo accademico e per la società nel suo complesso.

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Pubblicato inIstruzionePolitica

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