Se questa non fosse la realtà, sembrerebbe uno sketch da commedia dell’assurdo. Ignazio Pullarà, boss di Cosa Nostra e storico reggente del mandamento di Santa Maria di Gesù, condannato per mafia e omicidio, eccolo passeggiare tranquillamente per le strade di Palermo grazie a un permesso premio di quindici giorni. Quindici giorni di “vacanza” concessi dal giudice di sorveglianza di Cuneo per premiare, si suppone, un comportamento modello in carcere. Ora, spiegatemi: ma davvero ci siamo ridotti a premiare la “buona condotta” di chi non ha mai smesso di essere il boss? Qualcuno crede davvero che quindici giorni di libertà siano un diritto meritato per chi ha sulle spalle una carriera criminale di decenni?
Originario di San Giuseppe Jato, in provincia di Palermo, Pullarà è in carcere dal 1990 ed è stato condannato all’ergastolo nel 2019 per omicidio. Nello stesso anno, le autorità gli hanno confiscato beni per un valore di 1,6 milioni di euro, provando la sua influenza nel mondo mafioso anche durante la detenzione. Le indagini hanno evidenziato infatti che il boss continuava a mantenere contatti con affiliati e gestiva attività economiche attraverso prestanome.
Paradossale: il boss mai pentito premiato per buona condotta
Pullarà, uomo di fiducia di Totò Riina e coinvolto nel sistema di gestione dei fondi tra Palermo e certi ambienti milanesi, non ha mai collaborato con la giustizia. Niente pentimento, nessun passo indietro rispetto al sistema mafioso, eppure eccolo qua, “premiato” con un permesso per tornare nella sua città. E il messaggio? Ah, questo è chiaro: il carcere è solo una parentesi momentanea per certi personaggi; perché mentre il boss di Santa Maria di Gesù passeggia sotto i portici di Palermo, chi ha perso familiari e amici per mano della mafia deve assistere a questa sceneggiata. Sono immagini che lasciano perlomeno l’amaro in bocca.
Non c’è due senza tre: i precedenti di Paolo Alfano e Raffaele Galatolo
E non è neppure un caso isolato, ormai: è solo l’ultimo esempio. Ignazio Pullarà è il terzo boss a beneficiare di questi permessi premio in un lasso di tempo ridicolmente breve. Prima di lui, Paolo Alfano (condannato all’ergastolo per due omicidi commessi nel 1981 e rimasto latitante fino al 1996) e Raffaele Galatolo (condannato a 30 anni per essere stato uno dei mandanti della strage di Pizzolungo del 2 aprile 1985) sono usciti per brevi periodi, sempre per “buona condotta”. Sì, proprio Galatolo, uno che di buona condotta non ha mai avuto neanche l’ombra e che, come Pullarà, non ha mai fatto cenno a una collaborazione con la giustizia, perché il codice d’onore della mafia è intoccabile. Eppure il sistema premia, sorride e concede permessi.
Chi stabilisce questi criteri? Dove sta scritto che la “buona condotta” in carcere possa compensare crimini e omicidi commessi senza alcun rimorso? Nessuna vittima della mafia ha avuto mai la possibilità di prendere una pausa dai soprusi, dagli attentati, dall’odore del sangue. Ma per Pullarà, Alfano e Galatolo sì: ci sono giudici pronti a dare queste “licenze premio”.
Il detenuto modello che piace alla giustizia: ma chi stiamo prendendo in giro?
E arriviamo al punto. Si dice che Pullarà sia un “detenuto modello”. Di quelli che in carcere si comportano bene, leggono libri, partecipano a corsi, si integrano. Un detenuto che non fa storie, rispettoso delle regole, magari anche educato con il personale penitenziario. E qui si apre un’altra domanda: ma da quando il rispetto delle regole è diventato una straordinaria conquista? Che ci si aspetta che facciano in carcere, che organizzino nuove faide? Siamo arrivati al punto in cui il semplice fatto di non uccidere in carcere è visto come un merito. Ignazio Pullarà rispetta le regole solo nel carcere, ma là fuori? Ah, là fuori i “detenuti modello” ritornano a essere solo e sempre boss.
Lo stesso Leonardo Agueci, ex procuratore aggiunto di Palermo, non usa mezzi termini: “È esperienza comune che i boss in carcere si comportano formalmente bene pur restando in pieno inseriti nell’organizzazione”. A che pro, quindi, continuare con questa farsa della “buona condotta”? Perché non esigere piuttosto una collaborazione reale con la giustizia, un pentimento vero? Sono decenni che i boss hanno capito il trucco: fanno finta di “essere bravi” e ottengono permessi premio, sconti di pena, possibilità di rientrare nel proprio ambiente. È un gioco al massacro che va avanti sotto gli occhi di tutti.
Il messaggio alle nuove generazioni: cosa imparano i giovani?
Ma davvero non ci rendiamo conto del messaggio devastante che arriva da queste decisioni? Ai giovani che vedono la criminalità come una strada sbagliata e pericolosa, che insegnamento offriamo? “Potete fare tutto: rapine, omicidi, traffico di droga… basta che in carcere vi comportiate bene, e alla fine un permesso premio ve lo danno”. Non c’è morale, non c’è coerenza, non c’è giustizia in questo sistema. Si continua a premiare chi non merita, e si continua a punire chi, ogni giorno, combatte contro la criminalità.
La verità è che il sistema premiale per i boss della mafia è una contraddizione in termini. La “buona condotta” dovrebbe essere valutata in base al pentimento e alla collaborazione, non al comportamento “buono” solo quando conviene. Chi non rinnega Cosa Nostra dovrebbe restare in carcere senza premi, senza vacanze, senza illusioni di libertà temporanea.
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