C’era una volta Torino, città dell’auto, dell’ingegno, della fatica. La città che inventò il lavoro moderno e lo rese grande, fino a farne una vocazione nazionale. Oggi, di quella capitale operaia resta solo il guscio. Dietro i vetri lucidi del Lingotto e i convegni sulla “mobilità sostenibile”, si nasconde una verità che brucia: Torino è stata spremuta fino all’osso da chi l’ha usata come una vacca da mungere.
E il cognome, inutile girarci intorno, è sempre quello: Elkann. Gli eredi della dinastia Agnelli, che un tempo faceva nascere lavoro, dignità e ricchezza, oggi lasciano dietro di sé capannoni chiusi, redazioni in vendita e una città che si sente tradita.
La fabbrica tradita
Non serve essere nostalgici per capire che Torino non è più la città dell’auto, ma quella dei disoccupati dell’auto. Mirafiori è diventato un museo industriale, Grugliasco uno scheletro. Gli Elkann – con il sorriso elegante dei manager globali – hanno chiuso stabilimenti, delocalizzato produzioni, tagliato personale, intascato fondi pubblici e promesse europee.
Poi, quando non c’era più nulla da arraffare, hanno fatto le valigie.
La Fiat non esiste più: è diventata Stellantis, una multinazionale senz’anima, che risponde a Parigi e a Detroit, non più a Torino. La Maserati di Grugliasco, chiusa nel 2024, è il simbolo di un addio freddo e calcolato. E mentre i torinesi contano i posti di lavoro perduti, Exor sposta le tasse e i profitti ad Amsterdam, lontano dagli sguardi di chi ha dato tutto.
Il risultato? Una città desertificata industrialmente, ma con i salotti sempre pieni di parole.
Dalla fabbrica alla redazione: la seconda fuga
Gli Elkann non si sono accontentati di svuotare le fabbriche: hanno svuotato anche la voce della città.
Dopo aver preso il controllo del gruppo GEDI – con La Stampa, La Repubblica, L’Espresso, La Sentinella del Canavese e Radio Deejay – hanno gestito, piegato, usato e ora vendono.
E così, La Stampa, il giornale di Torino, quello che raccontava la città dal 1867, rischia di finire in mani esterne. Dopo averlo usato come strumento di influenza, oggi lo si tratta come un soprammobile di lusso da monetizzare.
L’editoria, che un tempo era missione civile, è diventata un’operazione di portafoglio.
E Torino, oltre all’auto, perde anche la sua voce.
Il capitalismo senz’anima
È la nuova religione del denaro: prendere in Italia, incassare in Olanda, investire altrove.
In vent’anni la famiglia Elkann ha raccolto più di 40 miliardi di euro da vendite, fusioni e cessioni. Un fiume di denaro che ha lasciato Torino sempre più povera e sempre meno centrale.
I nomi cambiano – Exor, Stellantis, GEDI – ma la sostanza è sempre quella: il capitalismo apolide che non conosce radici né fedeltà.
Un tempo il padrone aveva nome, volto e parrocchia. Oggi è una sigla su un documento societario.
Si sono portati via la produzione, la comunicazione e perfino il racconto. E l’hanno fatto con un’eleganza glaciale, quella che maschera la spietatezza dietro la parola “ristrutturazione”.
Torino ferita ma non doma
Eppure, Torino non dimentica.
Non dimenticano gli operai che hanno dato quarant’anni di vita alla catena di montaggio.
Non dimenticano i giornalisti che hanno raccontato la città fino all’ultimo giorno prima del passaggio di proprietà.
Non dimenticano i torinesi che ogni mattina passano davanti a Mirafiori e sentono solo silenzio dove un tempo ruggivano i motori.
Torino è una città cattolica, sobria, laboriosa. Non urla, non piange. Ma osserva, ricorda e giudica.
E sa distinguere tra chi costruisce e chi sfrutta. Tra chi lavora e chi lucra.
Serve un ritorno alle radici
L’Italia non può vivere di capitali che vanno e vengono come turisti fiscali.
Senza fabbriche e senza giornali, non resta che la fuffa dei talk show.
Serve tornare alla concretezza, alla vocazione produttiva, alla responsabilità sociale.
Un’impresa, se vuole chiamarsi tale, non può essere solo utile ai bilanci: deve essere utile alla sua comunità.
E chi da Torino ha preso tutto, oggi dovrebbe avere almeno la decenza di restituire qualcosa.
Torino merita rispetto, non elemosine.
Dopo averla “munta all’inverosimile”, gli Elkann si allontanano con il portafoglio pieno e la coscienza vuota.
Ma la storia, quella vera, non la scrivono i bilanci: la scrivono le città che resistono.
E Torino, con la sua fede e la sua dignità, resisterà anche a questo.
Perché quando tutto il resto passerà, resteranno solo le radici.
E le radici – a differenza dei capitali – non delocalizzano.

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