Giorni addietro, quasi per festeggiare la distribuzione automatica di anticoncezionali ormonali che paiono essere la panacea per prevenire o curare ogni disturbo femminile, dall’endometriosi alla gravidanza, viene diffusa dall’Ansa un’intervista rivolta alla dottoressa Canitano. L’argomento è la solitudine delle madri e, come vedremo, la dottoressa ha le idee chiarissime.
Un paio di considerazioni su questo medico, che è una mia vecchia conoscenza. Per esempio, è colei che ammise, in questo post, di aver acquistato la pillola del giorno dopo per una minore in difficoltà (economiche? Familiari?) con tanto di plauso da parte di chi suppone che in mancanza di una relazione tra genitori e figli, debba intervenire qualcuno di esterno per sostituirsi, guardandosene bene dal cercare di far riallacciare il delicato rapporto di accoglienza, tenerezza e confidenza che ci dovrebbe essere tra genitori e figli, soprattutto quando un figlio o una figlia vivono una situazione di difficoltà. Questa cosiddetta hubris (arroganza, tracotanza) si mostra in tutto il suo splendore in alcuni operatori sanitari che sentono il diritto di sostituirsi alle famiglie: questa situazione la vediamo chiarissima da quando la cosiddetta “disforia di genere” è divenuto l’obiettivo della dittatura trans anche attraverso medici e politici che aspirano alla somministrazione di farmaci e “terapie” psicologiche, togliendo anche la patria potestà ai minori che sono vittime di convincimento. Perché la dottoressa Canitano non ha fatto ragionare la ragazza, magari cercando di capire in che fase del ciclo fosse la giovincella? Questo sarebbe stato di stimolo a conoscersi meglio, a riflettere maggiormente sulla sua competenza femminile e sul rispetto verso sé stessa… Tuttavia non è sua abitudine perché la presidente dell’associazione Vita di Donna non sa o non è interessata a diffondere il fatto che la conoscenza del proprio ciclo sia importante per tutte le donne (per chi fosse interessato, qui il libro “Tesori Femminili” che è un buonissimo punto di partenza): lo sappiamo dal sito dell’associazione stessa che mette a paragone il metodo Ogino-Knauss (ignorando che fossero due metodi diversi), abbandonato già all’inizio degli anni Settanta del Novecento, coi i metodi Sintotermico CAMen, Sintotermico Rötzer e il metodo Billings, che invece hanno una bibliografia scientifica pressoché infinita (qui se ne può trovare una parte) che ne spiega ogni potenzialità a partire dal fatto che possono essere spiegati alle giovanissime donne in epoca menarcale (all’inizio dello sviluppo). Ma non soltanto: è molto interessante leggere, tra le FAQ sull’aborto della medesima associazione che tanto fa in favore dell’interruzione volontaria di gravidanza, come non possa far altro che suggerire un CAV (rigorosamente scritto per esteso e in minuscolo, quasi facesse senso anche solo scrivere correttamente il nome) quando una donna è gravida ma ha l’intenzione di tenere il bambino. È molto interessante che scrivano il fatto che nei ‘centri di aiuto alla vita’ le donne vengono incoraggiate e sostenute nell’avere il bambino: forse perché l’associazione si chiama “Vita di Donna” e non “Vita di Madre”… Bisognerebbe chiedere alla dottoressa Canitano, portavoce di Potere al Popolo, se troverebbe giusto che lo Stato sostenesse economicamente i CAV (come da articolo della Legge 194/78), per venire incontro ai bambini del Popolo e per dare Potere alle mamme del Popolo. La dottoressa, che su questo post si dichiara assolutamente contraria nel riconoscere che i bambini abortiti volontariamente vadano annoverati tra i lutti perinatali, è certa del fatto che non tutte le donne soffrano dopo aver abortito (lo dice spesso anche attraverso le sue collaboratrici, mie colleghe e alcune psicologhe, che scrivono su “ho abortito e sto benissimo”, un blog edificante). Mi occupai della faccenda, e riportai tutto il ‘botta e risposta’ con la dottoressa (che poi è stato cancellato quando fu annullato il mio primo account facebook) in questo articolo (la ri-nominai dottoressa XXX).
Torniamo al presente e all’Ansa che intervista la presidente Canitano sulla solitudine della maternità. Debbo ammettere che su alcuni concetti, quanto mai lapalissiani, la dottoressa mi trova d’accordo, ma andiamo con ordine. In primissima battuta la dottoressa afferma: «(si può parlare di solitudine delle madri) perché avere un figlio è considerato un gesto individuale che non riguarda la nostra società, anzi, si considera che la società si abbatte sulle madri perché svolgano questo compito». La dottoressa fa un brevissimo excursus storico in quanto racconta che nel passato, sia che la madre fosse povera, sia che fosse ricca, non era mai sola a svolgere questo compito. Le donne vivevano di un sapere che si trasmetteva di generazione in generazione: «Le bambine, appena erano in grado di gestire (come succede in vari Paesi del mondo ancora) bambini di 7, 8, 12 anni, li gestivano sapendo come fare perché quella era la loro vita presente e futura. È chiaro che non possiamo auspicare una cosa del genere perché queste bambine erano e sono sacrificate e non avevano una possibilità di sviluppo personale. Questo però ci aiuta a capire che questa figura della madre che sta ininterrottamente con il bambino, che gioca ininterrottamente col bambino, che è responsabile di tutte le attività del bambino, da un certo punto di vista è una novità». Una prima riflessione a bocce ferme: ma è possibile che si voglia sempre mettere il piede in due scarpe? Sessant’anni fa il femminismo ha sfatto le famiglie patriarcali perché le donne dovevano realizzarsi al di fuori del loro ruolo femminile/materno. E va bene. Poi hanno detto alle donne di fare meno figli e che era loro diritto emanciparsi. E va bene. Poi hanno rotto la relazione tra sessualità e procreazione perché la donna deve poter essere libera di scegliere tra il bambino vivo o il bambino morto (che tanto è un grumo di cellule, quindi senso di colpa go home). E va bene. Poi hanno ridotto la famiglia all’essere nucleare, quindi la donna si è ritrovata sola a fare la madre perché spesso figlia unica di genitori lontani o presi nella loro realizzazione (le famiglie patriarcali erano il male assoluto). E va bene. Quindi ora si denuncia il fatto che la società isola le madri affermando che la maternità è una loro scelta privata e che costoro sono sole come cani a barcamenarsi tra padri spesso inesistenti, il bisogno di lavorare per vivere, i tempi del bambino. Cos’è che non è chiaro alla dottoressa? Non ci vuole un corso di Storia Moderna per capire che chi come lei ha combattuto e combatte per RU486 distribuita come Zigulì e in favore del transfemminismo (quindi vede positivamente la Legge Zan e l’utero in affitto), non fa molto perché la figura della Madre e la Maternità siano espressioni positive della femminilità (quella di chi nasce con vagina e mammelle, non “diventa” o “si sente” femmina).
La dottoressa afferma che la società deve porsi il problema della solitudine delle madri, sostituendosi «al welfare patriarcale» (lo chiama così) ovvero a quella mancanza di sostegno e aiuto alle donne che ricevevano da una vita familiare densa di persone alle quali affidarsi. Cioè, vediamo se ho capito: dopo aver “liberato” le donne dal loro ruolo familiare, dopo aver fatto scappare gli uomini dalle loro responsabilità (lo si fa, per esempio, rendendo l’accoppiamento sterile anche attraverso la distribuzione di pillola anticoncezionale), dopo aver preteso la distruzione della famiglia e reclamato il diritto alla soppressione del nascituro (entrambi traguardi deresponsabilizzanti), la società dovrebbe trovare il modo di sostituirsi a quel “villaggio” che consentiva alla madre di occuparsi dei figli assieme ad altre donne, e faceva crescere i bambini tutti assieme in una condizione di “educazione orizzontale” (tra fratelli/cugini). Cioè, dopo aver smembrato a piccoli pezzi la cultura dell’accudimento, del sostegno reciproco, della vicendevolezza sociale, la società (cioè lo Stato?) deve metterci mano perché – la dottoressa ammette – le donne hanno voglia di fare figli e questo «deve essere permesso loro senza che questo interferisca con la loro vita, con il loro lavoro, con le loro possibilità di realizzazione autonoma». L’arrivo di un figlio, quindi, deve praticamente non far cambiare nulla nella vita della donna: ella deve poter vivere la nascita di un bambino senza che costui o costei ‘interferisca’ con la realizzazione materna. Ma come può essere possibile? E soprattutto perché questo deve poter essere possibile? Un figlio deve portare gioia, sconvolgimento, cambiamenti non solo nella famiglia e nella madre, ma in tutta la società, altrimenti la maternità sarà sempre qualcosa di privato (la dottoressa pareva lamentare questa ingiustizia, all’inizio dell’intervista). La società può farlo – continua la dottoressa – non soltanto attraverso gli asili nido, ma attraverso degli spazi condivisi in cui la famiglia (la madre, o altri parenti) si reca per condividere la sua vita con altre famiglie: quindi non sono importanti solo i luoghi dove altri adulti si occupano dei bambini mentre le mamme realizzano la loro autonomia (magari in fabbrica o in uffici per 8 ore al giorno), ma – grazie della concessione – anche dei luoghi di simil-aggregazione. Cosa che avviene in alcuni CAV, in tante parrocchie, in piccole associazioni locali (quella fondata con le mie amiche Barbara e Serena si chiamava “Associazione Abbracciami”)… Sì, perché questa «storia della riproduzione della specie (mi viene da belare o muggire, in questo momento) deve poter diventare un gesto comune in cui c’è una comunità che si raccoglie intorno ai bambini e chi li guarda». Giustamente la dottoressa inserisce il discorso riguardante il fatto che, attualmente, viviamo in una cultura dove la madre è al centro della vita del bambino talmente tanto che poi, se un bambino apparentemente risulta trascurato, si addossano le colpe a lei alla quale è richiesto non solo l’accudimento, ma anche la performancelavorativa (la dottoressa denuncia questo problema definendo l’asprezza della “selezione della madre perfetta”).
Siamo sempre lì: pochi sanno che a John Bowlby (padre della Teoria dell’Attaccamento) fu rinfacciato dalle femministe il fatto che lui identificasse nella figura materna il caregiver più importante per lo sviluppo del bambino, cosa che avrebbe potuto impedire psicologicamente e politicamente alle donne di emanciparsi. In realtà l’intenzione di Bowlby era quella di sottolineare quanto la madre fosse importante per il figlio valorizzandone la posizione nella società, senza cancellare i possibili sostegni economici che la politica doveva riservare alla maternità (Holmes, 1994). Quindi le madri sono importanti per il bambino – afferma la dottoressa – tanto che la società deve sostenerle, ma senza ammettere che costoro sono fondamentali per una crescita equilibrata dei bambini, preferendo definire come “pressione sociale”, il diritto di ascoltare l’istinto materno («Le madri hanno bisogno di stare con i bambini e i bambini hanno bisogno di stare con le loro madri» è una definizione chiara). La società non deve sostituirsi, ma deve creare “spazi mentali” per capire di cosa hanno bisogno le madri, le coppie… Per la dottoressa i papà sono importanti, ma la loro figura non è così fondamentale in quanto non tutti i padri possono o sono predisposti a esserlo. Infatti – conclude – fare figli è una responsabilità collettiva della nostra società.
Ora, a parte che i poveri padri sono l’ultima ruota del carro quando invece il loro ruolo è fondamentale per i bambini maschi e femmine, vorrei esprimere un sentito ringraziamento alla dottoressa Canitano che finalmente giunge alle stesse conclusioni alle quali siamo arrivate noi donne comuni che viviamo l’esperienza della maternità, del lavoro, dello studio nell’arco degli ultimi quarant’anni. Ella si è resa conto che quel tipo di femminismo che lei stessa ha portato avanti e porta ancora avanti e del quale è permeata la nostra società (quella che dovrebbe capire che la maternità è un fatto pubblico), in realtà è anti-donna perché non si coniuga affatto con le esigenze profonde della donna che vuole anche essere madre. Il modo di pensare che la Canitano ha manifestato sino al giorno prima di rilasciare questa intervista, evidentemente, adesso ammette indirettamente non sia sostenibile: è vero che la società deve farsi carico di riconoscere il ruolo fondamentale della donna e della madre, com’è vero che la donna non dovrebbe sentire la pressione sociale del dover essere una madre perfetta come sino ad oggi le è stato fatto credere, da un femminismo vuoto e acritico. La dottoressa Canitano, quindi, s’è desta. Adesso aspettiamo lo facciano tutte le femministe.
Rachele Sagramoso
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