Il presidente Erdoğan, a caccia di una riconferma, ha compresso le libertà spingendo per una deriva autocratica che ha colpito giornali e social media. Lo sfidante Kılıçdaroğlu promette una svolta liberale
Dopo aver dominato la politica locale per due decenni, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan si trova ad affrontare la sfida politica più difficile della sua carriera, con la Turchia che si prepara alle elezioni parlamentari e presidenziali di domenica 14 maggio. La maggior parte dei sondaggi vede il leader dell’opposizione Kemal Kılıçdaroğlu, sostenuto da un’alleanza di sei partiti, in leggero vantaggio sul presidente in carica. La sfida presidenziale potrebbe quindi andare al secondo turno.
Erdoğan ha ottenuto molteplici vittorie da quando ha portato al potere il Partito della giustizia e dello sviluppo (noto con la sigla di Akp) nel 2002. Ma questa volta è sul filo del rasoio e gli esperti si domandano cosa potrebbe succedere. Negli ultimi dieci anni il presidente ha mostrato tendenze sempre più autocratiche e ha accentrato il potere attorno al sistema presidenziale adottato dopo il referendum costituzionale del 2017.
È chiaro che le elezioni (così come tante altre cose) in Turchia non sono più totalmente libere ed eque: Erdoğan ha svuotato e politicizzato le istituzioni statali e i media non si possono di certo definire liberi. Una serie di fattori che rendono questo voto una delle consultazioni elettorali più importanti dal 1950, quando la Repubblica turca ha avuto le prime vere elezioni, dando inizio a un regime pluripartitico.
Il giro di vite
Durante il suo primo decennio al potere, in realtà, Erdoğan si è presentato come europeista e favorevole alla libera impresa. Gli è stato riconosciuto il merito di aver supervisionato una trasformazione delle infrastrutture che ha cambiato il volto del paese. Il suo secondo decennio però è stato caratterizzato da un tentativo di colpo di Stato, da epurazioni radicali dell’esercito e da rapporti difficili con gli alleati occidentali.
Nel corso della sua storia centenaria, la libertà di parola e di stampa in Turchia ha sempre seguito il complesso andamento della democrazia locale. Da colpi di stato militari all’escalation del movimento indipendentista curdo, fino alle varie crisi internazionali che si sono susseguite nel corso degli anni, il destino del giornalismo in questo Paese è sempre stato legato e influenzato dagli sviluppi contemporanei.
Nei primi anni al timone, Erdoğan ha introdotto una serie di riforme liberali, in parte per conquistarsi la fiducia dell’Occidente e in parte per ridurre l’influenza dei militari. Quando ha ritenuto di aver raggiunto l’apice del suo potere, all’inizio del 2010, ha iniziato a rinnegare completamente queste promesse. Col passare del tempo, per esempio, i giornali indipendenti sono diventati incapaci di pagare gli stipendi al personale dopo il divieto di pubblicare annunci pubblicitari per generare entrate. Di conseguenza, circa la metà dei 1.800 giornali nazionali e locali ha dovuto chiudere i battenti e il tasso di disoccupazione in tutte le professioni dei media ha raggiunto il 40%. La Turchia è passata da “parzialmente libera” a “non libera” nella classifica annuale del centro studi Freedom House.
Erdoğan non si è fermato qui: negli ultimi anni, il suo governo ha introdotto una serie di regolamenti volti a limitare i media digitali, con il pretesto di combattere la disinformazione; questo ha portato alla chiusura di Ekşi Sözlük, il social network turco più popolare. Tuttavia, se si chiede allo stesso Erdoğan, sembra che sia vero il contrario: in occasione di un recente evento, il presidente turco ha affermato che “nel 2023 la stampa sarà molto più libera e molto più rispettata dal pubblico in Turchia. Tutti possono scrivere, dire ed esprimere ciò che vogliono“.
Un futuro migliore?
La candidatura di Kılıçdaroğlu è considerata una svolta per il paese. La sua ascesa a candidato presidenziale è durata decenni, galvanizzata da una marcia di quattrocentocinquanta chilometri da Ankara a Istanbul nel 2017 per protestare contro una serie di arresti, in seguito al tentativo di colpo di Stato del 2016. Kılıçdaroğlu ha promesso di guidare il ritorno alla democrazia parlamentare e si è anche impegnato a ripristinare l’indipendenza della magistratura, abbandonando l’uso del sistema giudiziario per reprimere il dissenso.
Il programma della coalizione di opposizione prevede riforme sostanziali per quanto riguarda la libertà di stampa, l’indipendenza del sistema giudiziario e il ripristino dello Stato di diritto. Secondo molti osservatori, un vento di libertà soffierà sicuramente sul Paese se Erdogan dovesse perdere. Kılıçdaroğlu ha promesso di attuare immediatamente le decisioni della Corte europea dei diritti umani e di intraprendere un cammino verso l’integrazione europea.
Lo sfidante di Erdoğan afferma che se vincerà porterà in Turchia libertà e diritti, costi quel che costi. “I giovani vogliono la democrazia – ha dichiarato alla Bbc -. Non vogliono che la polizia si presenti alle loro porte la mattina presto solo perché hanno twittato“. A simboleggiare la sua figura c’è una vignetta appesa nel suo ufficio, che lo mostra vestito con sandali e scialle per assomigliare al Mahatma Gandhi, mentre cammina verso il presidente Erdoğan. È un riferimento alla marcia del 2017 di Kılıçdaroğlu, soprannominato “Gandhi Kemal” dai media turchi.
In caso di vittoria di Erdoğan, invece, la strada sembra segnata: il successo del presidente porterebbe a un’ulteriore stretta, mettendo nel mirino le varie minoranze (come la comunità lgbtq+) e gli ultimi baluardi democratici del Paese, a cominciare dai media e dagli esponenti dell’opposizione.
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