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Djokovic, vincere contro tutti

Ha vinto. È lui il più grande tennista di tutti i tempi. Con la vittoria al Roland Garros, Novak Djokovic conquista il suo ventitreesimo titolo del Grande Slam e supera Rafa Nadal, il rivale di sempre insieme a Roger Federer, con i quali ha scritto l’epopea di questa età d’oro del tennis.

Ha vinto nonostante lo abbiano costretto a saltare, negli ultimi due anni, tutti i tornei americani e australiani, ad un’età, 36 anni, in cui il tempo è prezioso. Hanno cercato in tutti i modi di umiliarlo, discriminarlo, distruggerlo, a partire dal soprannome “No-vax Djoko-covid”. Non importa chi sei e cosa fai, non importa aver creato una Fondazione che assiste migliaia di famiglie in difficoltà o aver aiutato i tennisti che, senza il gettone di presenza alle competizioni, facevano la fame o aver donato un milione di euro agli ospedali di Bergamo a inizio pandemia. Se non sei vaccinato meriti l’esclusione sportiva, la rinnegazione sociale, la gogna mediatica e persino il carcere.

Come accaduto in Australia quando è stato deportato in un centro profughi per una settimana, con il tripudio della stampa mondiale. La vicenda è nota: il 5 gennaio 2022 Djokovic atterra a Melbourne per partecipare al torneo che ha già vinto nove volte ma viene fermato dalla polizia di frontiera, malgrado l’autorizzazione fornitagli da “Tennis Australia”, l’ente organizzatore della competizione. Il serbo fa ricorso e il giudice riconosce la validità dei documenti presentati (ha avuto il Covid ed è guarito) ma il ministro dell’Immigrazione interviene annullando il visto e decretandone l’espulsione definitiva. “Accolgo con favore la decisione di mantenere forti i nostri confini e proteggere gli australiani”, commenta Scott Morrison, primo ministro della Nazione che ha adottato le restrizioni antipandemiche più feroci al mondo, insieme a Italia e Canada.

“Sono diventato un caso politico, uno che metteva in pericolo il mondo.” – ha detto un mese fa Djokovic ricordando ciò che ha dovuto subire negli ultimi anni – “Il sistema, di cui i media sono parte, esigeva un bersaglio che fosse opposto al mainstream e lo sono diventato io. Mi hanno messo l’etichetta di no vax, una cosa del tutto falsa. Io non sono no vax e non ho mai detto in vita mia di esserlo. Non sono neppure pro vax. Sono pro choice: difendo la libertà di scelta. È un diritto fondamentale dell’uomo la libertà di decidere che cosa inoculare nel proprio corpo e cosa no.”

“Mi sono ritrovato solo, mi sono sentito una pecora circondata da venti lupi. E un uomo solo contro i grandi media non ha chance”, ha aggiunto.

“Un giorno ero nella foresta, avrò avuto dieci anni, e ho incontrato un lupo. Provai una paura profonda. Mi avevano detto che in questi casi bisogna indietreggiare lentamente, senza perderlo di vista. Ci siamo guardati per dieci secondi, i più lunghi della mia vita; poi lui ha piegato a sinistra e se n’è andato. Provai una sensazione fortissima che non mi ha mai abbandonato: una connessione d’anima, di spirito. Non ho mai creduto alle coincidenze, e pure quel lupo non lo era. Era previsto. È stato un incontro breve, ma molto importante. Spesso nella vita mi sono ritrovato solo. Solo con la mia missione, con i miei obiettivi da raggiungere. Sono rimasto connesso con quel lupo”.

Quel lupo, simbolo di libertà inaddomesticabile, deve avergli dato forza quando è stato circondato dal branco e aggredito da un linciaggio mediatico mondiale vergognoso.

Che sui campi da tennis si stessero giocando ben altre partite è evidenziato dal fatto che, subito dopo la cacciata di Djokovic dal torneo di Melbourne, Wimbledon vietava la partecipazione ai giocatori russi. In soli quattro mesi, la nozione di “nemico pubblico” è passata dal vaccino alla guerra, adottando la stessa campagna d’odio. Dall’Australia all’Inghilterra, da Djokovic a Medvevev, le pratiche del potere si esercitano disciplinando il corpo degli atleti, regolamentandone gli accessi, i divieti e i movimenti al di qua o al di là di una linea ritenuta “politicamente corretta”, sottile e fatale come la linea di fondocampo. “Out”, grida il giudice di linea quando la palla è fuori. Solo che la linea è diventata elastica e si sposta in base al volere dell’autorità che modifica arbitrariamente le regole del gioco. Il tennis è diventato strumento di propaganda ideologica: partita persa, per lo sport, tutto, e per i valori che rappresenta.

La politica entra in campo per ammaestrare il corpo sociale, addomesticare l’immaginario e selezionare i nuovi eroi “politicamente corretti”: in ogni angolo del mondo c’è un ragazzino che sogna di diventare Djokovic o Medvevev.

Di fronte al totalitarismo ideologico in cui l’obbedienza acritica alle regole è stata presentata come medaglia di civismo e di altruismo, Djokovic ha dimostrato cosa sia la dignità, l’onore e il coraggio di difendere le proprie idee anche a costo di pagarne un prezzo altissimo. Una lezione di vita impartita a milioni di persone, in particolare a tutti quei bambini e adolescenti esclusi dallo sport durante la pandemia con il benestare del Coni, senza che nessuno dicesse niente.

Set dopo set, Djokovic ha sconfitto tutti gli avversari, ma negli ultimi due anni la partita più importante l’ha dovuta giocare fuori dal campo, in lotta da solo contro tutti.

È una battaglia che poteva vincere solo Nole, allenato da sempre a sopportare le avversità. Nato a Belgrado, da bambino si allenava accanto alle macerie, sotto i bombardamenti della Nato. E sognava di vincere Wimbledon. Una volta fu costretto a nascondersi in un rifugio antiaereo per 78 notti consecutive. “Fu uno dei periodi più duri per il mio Paese e per tutta l’Europa, c’era l’embargo, dovevamo metterci in fila per avere una razione giornaliera di pane, di latte, un po’ d’acqua e le altre cose basilari per vivere. Queste cose ti segnano, hanno avuto una influenza decisiva sulla mia formazione, anche dal punto di vista sportivo, mi hanno reso più forte e più affamato. Nei momenti complicati, cerco sempre di ricordare da dove sono venuto”. È qui, in mezzo alla paura e alla morte, che Nole forgia il suo carattere. Neanche la guerra riesce a spegnere il suo sogno.

Quando ha solo sei anni, viene notato da Jelena Gencic – l’allenatrice di Monica Seles – che intuisce che quel bambino possiede qualità fuori dal comune e ne modella il talento. I genitori gestiscono una pizzeria e finiscono persino in mano agli usurai per pagare le lezioni di tennis.
Ancora giovanissimo, Novak arriva in Italia nel 2004, per farsi allenare da Riccardo Piatti che stava seguendo un altro fuoriclasse: “questo diventa come Ljubicic “, gli dicevano, “anche meglio!”, rispondeva il coach comasco. Da allora ha sempre avuto un rapporto speciale con il nostro paese e sa parlare anche l’italiano.

Il resto è storia con 10 Australian Open, 7 Wimbledon, 3 Us Open e 3 Roland Garros vinti. Una storia che assume anche i colori dell’epica con la finale di Wimbledon del 2019 contro Roger Federer, che molti non hanno esitato a definire la partita del secolo. Cinque ore di gioco, cinque set, e quei due che hanno già vinto tutto, guadagnato miliardi, non mollano un colpo consumati dalla loro passione divorante.

Alla fine vince Djokovic 13 a 12 al quinto set. Ma soffre perché non è amato dal pubblico. La gente ama solo quei due: Federer, il Raffaello di un tennis fatto di grazia e classe, e Nadal, il gladiatore tutto muscoli e grinta. Djokovic è arrivato un attimo dopo, terzo incomodo non previsto nell’epopea cominciata senza di lui. Inoltre, la sua forza mentale, la sua capacità di concentrazione, lo fanno sembrare poco empatico, lo paragonano a un robot.

Due anni fa era a un passo dalla leggenda, poteva conquistare il Grande Slam, cioè vincere i quattro principali tornei del circuito nello stesso anno. Scende in campo a New York per la finale degli Us Open contro Medvedev e non ne azzecca una, sbaglia tutto, è visibilmente teso. È la sua delusione sportiva più amara. Però succede che il pubblico vedendolo così vulnerabile inizia, per la prima volta in 20 anni, ad acclamarlo, a tifare per lui. Nole l’invincibile è vinto dalle emozioni, si commuove, piange. E dice durante la premiazione:“Il mio cuore è pieno di gioia, mi avete fatto sentire speciale sul campo di tennis, avete toccato la mia anima, non mi sono mai sentito così”. Finalmente ha guadagnato anche l’affetto della gente, l’unica coppa che gli mancava…

Un anno dopo essere stato cacciato come un delinquente dagli Australian Open, Djokovic torna e vince il suo 22° titolo del Grande Slam di fronte a Bill Gates presente fra il pubblico. L’11 giugno conquista Parigi ed entra nella leggenda.

In un intervista del 2022 alla BBC in cui gli avevano chiesto se era disposto a rinunciare alla possibilità di diventare il più grande giocatore che abbia mai preso in mano una racchetta, Nole aveva detto: “se questo è il prezzo, sono disposto a pagarlo, per me è più importante che la gente mi ricordi come persona, come qualcuno che ha mantenuto la giusta direzione in ogni aspetto della sua carriera”.

Il ragazzo di Belgrado ha portato sul campo da tennis la sua lotta per la sopravvivenza, ogni incontro una battaglia, ogni partita una questione di vita o di morte. Di fronte ad un avversario apparentemente imbattibile, bisogna giocare ogni palla, rispondere sempre, resistere anche nei momenti più difficili, approfittare di ogni errore gratuito, mantenere lucidità mentale e visione di gioco fino ad assestare il colpo vincente, senza perdere mai la speranza.

In lotta da solo contro il mondo intero, Djokovic ha dimostrato che vincere si può.

Sonia Milone

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