Mentre il Pentagono è sceso pericolosamente vicino alla soglia minima dei suoi arsenali di munizioni (li sta svuotando per aiutare l’Ucraina); mentre pochi tra gli Stati membri della Nato mantengono l’impegno di spendere il 2% del Pil per la difesa; mentre in Germania la rissa tra Verdi e partito liberale paralizza la modernizzazione delle forze armate (come ha ricordato Paolo Valentino). Mentre accade tutto ciò a Occidente… è a Oriente del globo che la corsa al riarmo procede in modo inesorabile.
L’ha scatenata la Cina, e i suoi vicini che si sentono minacciati ne traggono le conseguenze.
I numeri di questa corsa al riarmo sono impressionanti, ben più di quanto accade nella vecchia Europa. Siccome tra Asia e Pacifico si concentrano la maggior parte della popolazione umana e della ricchezza economica, ciò che sta accadendo su quel teatro strategico è perfino più importante della guerra in Ucraina per il futuro del pianeta. La stessa aggressione russa all’Ucraina continua a godere del pieno appoggio di Xi Jinping per una ragione che è evidente in questi dati: per sostenere la difesa del popolo ucraino contro l’aggressore, il Pentagono ha fornito a Kiev una tale quantità di missili Stinger e Javelin che ci vorrebbero 13 anni (agli attuali ritmi di produzione) per ricostituire le scorte americane di prima della guerra.
Se la Cina dovesse invadere Taiwan oggi, e se gli Stati Uniti provassero a venire in difesa dell’isola, gli americani finirebbero i loro missili marini di lunga gittata (quelli essenziali per respingere un attacco navale cinese) in una sola settimana, visto il livello a cui sono scese le loro scorte.
Questi dati fanno della guerra in Ucraina un regalo prezioso per Xi Jinping: la Russia sta succhiando risorse di cui gli Stati Uniti avrebbero bisogno in Asia.
Tutti quei paesi asiatici che si sentono minacciati dalla Cina, ne traggono le conseguenze. Da una parte cercano garanzie e rassicurazioni sulla capacità dell’America di difenderli. D’altro lato però tendono a non fidarsi troppo delle promesse americane, e si premuniscono da soli, o formano coalizioni locali in funzione anti-cinese. E le spese militari crescono.
All’origine c’è una realtà che tutti sperimentano in Asia: la crescita in parallelo della minaccia militare cinese, e di una politica estera di Pechino sempre più aggressiva. Ufficialmente la Repubblica Popolare spende in armi 300 miliardi di dollari, il secondo budget militare dopo quello americano che è di 800 miliardi. I dati ufficiali però raccontano solo una parte della storia. Il perimetro delle spese belliche cinesi è più ampio del dato ufficiale perché in Cina non esiste un confine preciso tra industria civile e industria militare. Per esempio il principale colosso delle telecom, Huawei, è stato fondato ed è tuttora diretto da un ufficiale dell’Esercito Popolare di Liberazione, il nome delle forze armate di Pechino. Molte aziende cinesi che operano nelle tecnologie di punta fanno parte del complesso militar-industriale, sicché una parte del Pil «civile» contribuisce di fatto a rafforzare l’apparato bellico della nazione. Inoltre la spesa militare americana è dispersa su tutto il globo perché Washington ha impegni formali (trattati come il Patto Atlantico all’origine della Nato) che obbligano il Pentagono a difendere alleati e a mantenere basi in varie parti del mondo. La Cina invece per adesso concentra le proprie risorse soprattutto per stabilire un predominio in Asia.
Comunque Pechino ha già a sua disposizione una flotta militare che supera le dimensioni dell’intera U.S. Navy: 360 navi militari cinesi contro 297 americane, in tutto il mondo. Un’inchiesta del New York Times riassume altri dati dello scenario strategico in Asia. Nel 2021 la Cina ha lanciato 135 missili balistici per i suoi test, cioè più di tutti gli altri Paesi del mondo messi assieme (al di fuori delle zone di guerra). La sua dotazione di testate nucleari sta salendo da 400 a 1.000 e Pechino ha già più piattaforme terrestri di lancio degli Stati Uniti. L’Esercito Popolare di Liberazione possiede il più vasto arsenale mondiale di missili ipersonici. Uno di questi, il Dong-Feng 41, ha sorvolato l’intero globo terrestre nel 2021. Questi missili possono trasportare testate nucleari e vengono chiamati dalla stampa cinese «Guam killer» perché potrebbero distruggere la più importante base militare americana del Pacifico, l’isola di Guam.
Il forte aumento della capacità militare cinese preoccupa tanto più i Paesi vicini in quanto si accompagna alla nuova politica estera portata avanti dai Guerrieri Lupo, come vengono chiamati i diplomatici allevati sotto la leadership di Xi Jinping: portavoce di un nazionalismo sempre più esplicito e aggressivo. A fare le spese della escalation di prepotenze cinesi, diplomatiche o militari, sono stati l’India e il Vietnam, le Filippine e la Corea del Sud, il Giappone e naturalmente Taiwan. Ciascuno di questi Paesi negli ultimi anni ha assaggiato le pretese di espansione territoriale della Cina sotto forma di azioni dimostrative, sconfinamenti nelle acque o cieli sovrani, o vere e proprie aggressioni. L’India ha sofferto un bilancio di morti per gli scontri di confine con le truppe di Pechino. Taiwan ha subito le prove generali di uno strangolamento economico con l’accerchiamento militare dell’estate scorsa. Le flotte filippine, vietnamita, malese, hanno dovuto vedersela con manovre militari ostili. Il Giappone ha subito per la prima volta nella storia dei lanci di missili cinesi nelle acque della sua zona economica esclusiva.
Allargando lo sguardo oltre l’Asia, nel Pacifico l’Australia è stata il bersaglio di una crescente rete di spionaggio cinese e per aver criticato Xi Jinping sul Covid ha subito una rappresaglia commerciale che ha messo in crisi diversi settori della sua economia (a cominciare dall’industria vitivinicola).
I risultati di questo espansionismo cinese sono ambivalenti. Da una parte Xi ha avuto un effetto simile a quello che Vladimir Putin ha ottenuto in Europa: ha compattato l’America e i suoi alleati. Così come in Europa la Nato è stata rafforzata dalla guerra in Ucraina, in Asia molti paesi stanno serrando i ranghi delle loro alleanze con gli Stati Uniti. Le Filippine hanno offerto all’America nuove basi militari per assicurarsi la difesa Usa in caso di aggressione. Giappone, Australia, India, stanno rafforzando la cooperazione militare con il Pentagono. Il caso più noto è l’accordo Aukus con cui americani inglesi e australiani costruiscono insieme una forza comune di sottomarini a propulsione nucleare: questi hanno un raggio d’azione che consentirebbe alla marina australiana di intervenire fino all’area di Taiwan se necessario.
I Paesi che si sentono minacciati dalla Cina, però, non possono dare per scontato che ci sarà sempre un’America disposta a difenderli. Quando arrivò Donald Trump alla Casa Bianca, mise in discussione la fedeltà alle alleanze, incluse quelle con il Giappone e la Corea del Sud. In futuro nessuno può escludere un ritorno all’isolazionismo, una politica che gli Stati Uniti praticarono a più riprese nella loro storia. E perfino se gli americani volessero continuare a difendere gli alleati, non è detto che abbiano la forza di farlo.
La protezione di Taiwan – secondo molti esperti dello stesso Pentagono – potrebbe essere già al di fuori della loro portata, visto lo squilibrio nei rapporti di forze con la Cina in quell’area. Il Pentagono definisce l’Indo-Pacifico come «il teatro prioritario» nella strategia Usa, e mantiene 300.000 soldati in quella parte del mondo, ma sono poca cosa rispetto all’Esercito Popolare di Liberazione che può contare su oltre due milioni di soldati in servizio effettivo. Per questo molti Paesi asiatici si premuniscono da soli, o in varie geometrie di alleanze nuove che devono operare anche nell’eventualità di un’assenza americana. Il Giappone ha annunciato un aumento del 60% delle sue spese per la difesa, con l’obiettivo di raggiungere il 2% del Pil. In proporzione si tratta dello stesso obiettivo proclamato dai paesi Nato inclusi Germania e Italia (che nei fatti non si avvicinano a quella soglia), ma poiché il Giappone ha il terzo Pil mondiale questo significa che la sua spesa per la difesa raggiungerà il terzo posto mondiale. Un esempio di nuove geometrie delle alleanze, è il vasto numero di accordi bilaterali che Giappone e India hanno firmato nel campo della difesa. L’apertura di una nuova base militare cinese in Cambogia, e gli accordi militari tra Pechino e le isole Salomone, stanno scatenando una sorta di corsa verso le contromisure. Tutti i paesi di quell’area cercano di premunirsi per un futuro in cui la Cina sarà sempre più vicina, anche militarmente, e l’America… si spera ci sia, ma non si sa.
Il risultato per adesso non è uno scenario ideale per gli interessi di lungo termine della Cina. Spaventando i suoi vicini, Xi Jinping accelera e rafforza le contromisure destinate al contenimento dell’espansionismo cinese.
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