Il mantra di Biden «resteremo al fianco di Kiev per tutto il tempo necessario» potrebbe diventare problematico: anche per questo gli Stati Uniti puntano molto sull’offensiva di primavera
Ai primi di marzo a Washington, alla conferenza annuale dei conservatori americani (CPAC) dominata dal popolo di Trump , la risposta più popolare alla domanda «Di chi è la guerra in Ucraina?» era sostanzialmente questa: «L’America non è una potenza europea, è una potenza del Pacifico. Perché gli europei non fanno di più per Kiev?».
La versione più estrema di questa risposta è stata formulata da Steve Bannon, ex guru di Trump e oggi finanziato da un miliardario cinese nemico della Repubblica Popolare, che affiancato dalla deputata di ultradestra della Camera, Marjorie Taylor Greene, chiedeva al pubblico: «I tedeschi non manderanno mai i loro soldati in Ucraina. Volete mandare i vostri figli e le vostre figlie a morire per Zelensky?». «Nooo», gridava la folla.
La durata del conflitto in Ucraina è una incognita che pesa politicamente sempre di più sia in Europa che negli Stati Uniti.
Non è un caso che pochi giorni fa l’alfiere del sostegno europeo a Kiev, il premier polacco Morawiecki che andrà a elezioni in autunno, ha chiesto a Bruxelles misure per frenare l’ingresso del grano ucraino sul mercato Ue perché sta danneggiando gli agricoltori polacchi, costando meno di quello locale. Dall’altro lato dell’Oceano, nonostante l’appoggio ricevuto finora dal suo elettorato, il mantra di Biden «resteremo al fianco di Kiev per tutto il tempo necessario» potrebbe diventare problematico: anche per questo gli Stati Uniti puntano molto sull’offensiva di primavera.
L’Unione europea è unita sulla necessità del sostegno all’Ucraina, con l’eccezione dell’Ungheria di Viktor Orbán che non perde occasione per fare distinguo su sanzioni contro Mosca e armi da inviare a Kiev: rispetto a un anno fa gli europei si sono avvicinati su questo tema e concordano sul fatto che la Russia è il loro avversario o rivale, secondo un sondaggio dello European Council on Foreign Relations (ECFR) diffuso il 16 marzo e condotto in dieci paesi europei (Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Polonia, Portogallo, Romania e Spagna). C’è la consapevolezza che in ballo ci sono i valori occidentali che l’Ue difende. Su chi tragga vantaggio dalla guerra, invece, cominciano le increspature. L’Italia si distingue: è il solo Paese insieme alla Romania in cui molte più persone pensano ancora che la guerra debba finire il prima possibile. Negli altri Stati Ue esaminati in questo sondaggio prevale l’idea che l’Ucraina debba riconquistare tutto il suo territorio.
L’Italia, a suo modo, è emblematica: la premier Giorgia Meloni non perde occasione per ribadire il proprio atlantismo e sostegno al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, ma il 22 marzo alla Camera per le comunicazioni sul Consiglio europeo del giorno successivo, e dunque anche sul sostegno militare all’Ucraina, mancavano dai banchi del governo quasi tutti i ministri leghisti (il Carroccio in più occasioni ha criticato le sanzioni). Mentre dai banchi dell’opposizione il M5S ribadiva la contrarietà all’invio di armi in nome della pace.
Ci sono anche timori che il conflitto possa fare gli interessi principalmente dell’industria bellica ed energetica di Washington. Un’accusa lanciata nemmeno troppo velatamente il 12 ottobre scorso dal ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire, che intervenendo all’Assemblea Nazionale a Parigi aveva dichiarato che «non possiamo accettare che il nostro partner americano ci venda il suo Gnl a un prezzo quattro volte superiore a quello al quale vende agli industriali americani». «La guerra in Ucraina — aveva aggiunto — non deve sfociare in una dominazione economica americana e a un indebolimento dell’Unione europea». L’irritazione francese era condivisa anche dal ministro dell’Economia tedesco, Robert Habeck. E non è un caso se nell’accordo sull’invio dei proiettili all’Ucraina ci sia anche una parte che difende il «Buy European», riferito agli stock di armi da sostituire, voluto da Parigi.
Intanto, in America, l’invasione russa dell’Ucraina non è però una priorità dell’elettorato. Al momento l’elettorato democratico resta al fianco di Kiev e si dice convinto delle scelte di Biden, ma anche un democratico come Leon Panetta, ex capo della Cia e del Pentagono sotto l’amministrazione di Barack Obama, ci ha detto: «Il tempo non è dalla nostra parte. Ci sono due vie: una è che l’Ucraina riesca a respingere la Russia; l’altra è una guerra di attrito, scenario che incoraggerà coloro che non appoggiano la guerra e cercano di minare le politiche degli Stati Uniti e degli alleati».
Un cambiamento di atteggiamento verso la guerra si registra nell’elettorato repubblicano: il 40% dice che l’America sta facendo troppo per Kiev. Trump e DeSantis, i principali contendenti per la nomination repubblicana alla Casa Bianca (che hanno l’appoggio insieme del 75% degli elettori del partito), e con loro un numero di deputati alla Camera proclamano che questa guerra non è un interesse vitale americano, anche se questa non è una posizione condivisa dall’establishment repubblicano, dai think tank conservatori tradizionalmente «falchi» di Washington e da altri rivali per la nomination repubblicana alla Casa Bianca come Nikki Haley e Mike Pompeo.
Al CPAC una lamentela ricorrente era che gran parte del “conto” della guerra in Ucraina viene coperto dagli Stati Uniti. L’Ue è consapevole da tempo che gli interessi geopolitici sono diversi ed è per questo che i discorsi su una Difesa comune europea sono diventati più concreti. E’ innegabile che l’Europa resti dipendente dagli Stati Uniti, anche se la guerra in Ucraina ha portato a un cambio di passo, come scrive Maria Demertzis di Bruegel, uno dei think tank brussellesi più autorevoli: «L’aumento previsto della spesa per la difesa dell’Ue entro il 2025 è del 33%, pari a 70 miliardi di euro. I 26 membri dell’Agenzia europea per la difesa hanno speso complessivamente 214 miliardi di euro nel 2021, pari all’1,5% del Pil totale. A titolo di confronto, i Paesi dell’Ue spendono in media il 5% per l’istruzione e quasi l’11% per l’assistenza sanitaria (…). Gli Stati Uniti hanno speso 858 miliardi di dollari per la difesa, che hanno rappresentato il 3,5% del Pil nel 2021. Un aumento dell’8% per il 2023».
Molto spesso in America il ragionamento sull’appoggio a Kiev – sia da parte dei favorevoli che dei contrari – viene legato alla Cina. Chi è contrario spiega che l’America non può occuparsi dell’Europa, perché la priorità americana è la Cina. Chi è a favore (lo stesso Pentagono) spiega che va fatto perché la Cina non si faccia strane idee su Taiwan. Ma davvero la guerra in Ucraina sta dissuadendo Pechino su una possibile invasione di Taiwan? In realtà ci sono delle controindicazioni: il Pentagono sta riducendo gli arsenali per inviare armi a Kiev e, se una guerra di ampia scala scoppiasse adesso con Pechino, l’America finirebbe in una settimana i missili anti-nave, nota il New York Times. Intanto Pechino sta studiando gli errori e i successi sul campo e imparando cosa serve nella “sua” guerra. Nei corridoi della CPAC, Sergio de la Peña, ex assistente segretario della Difesa per l’emisfero occidentale sotto la presidenza di Trump, ritiene che uno degli elementi a favore dell’impegno Usa in Ucraina sia proprio questo: «In Ucraina i cinesi hanno visto i successi delle armi americane e occidentali contro i russi», ma aggiunge che Biden dovrà presto discutere con gli americani sulla durata di questo conflitto e su cosa si intenda per «vittoria». «Com’è che sono gli ucraini a decidere come si definisce la vittoria, mentre gli americani pagano gran parte del conto di questa guerra? In assenza di questo dialogo, si arriverà al punto in cui la gente dirà: basta».
Francesca Basso e Viviana Mazza