È arrivata la ritorsione della Cina contro l’embargo sulle forniture di superstampanti per i semiconduttori imposto da Usa, Olanda e Giappone. L’Ue: «La stretta di Pechino sui chip minaccia la sicurezza»
La guerra fredda delle tecnologie investe un nuovo settore. È arrivata la ritorsione della Cina contro l’embargo sulle forniture di semiconduttori imposto dagli Stati Uniti e dai loro alleati.
Sono passati pochi giorni da quando l’Olanda ha confermato la sua adesione al blocco dell’export verso Pechino delle sue «super-stampanti» per realizzare microchip avanzati, ed ecco che scatta una contromisura di Xi Jinping. La Repubblica Popolare applicherà a sua volta un embargo su due metalli rari, il gallio e il germanio, necessari per la produzione di semiconduttori e anche di altri prodotti tecnologici, inclusi i pannelli solari.
La misura non viene presentata come mirata verso specifici Paesi, ma è chiaro che si rivolge all’America e ai suoi alleati. La contro-sanzione cinese — accolta dalla protesta europea: «La Cina rispetti gli obblighi internazionali, i controlli all’export devono essere basati su chiare considerazioni di sicurezza» — mette in luce una vulnerabilità dei paesi occidentali.
Mentre l’America continua ad avere un vantaggio relativo in alcune tecnologie avanzate, la Cina spesso possiede un semi-monopolio o comunque una posizione dominante in quelle materie prime o componenti che sono essenziali nella produzione delle tecnologie stesse.
Non è la prima volta che il governo di Pechino usa questo potere di mercato per negare le sue forniture e mettere sotto pressione altri paesi. Anni fa nelle terre rare e metalli strategici una prima vittima di questo tipo di sanzioni fu il Giappone, la cui industria tecnologica si vide negare materie prime cinesi, come castigo politico nell’ambito di una controversia territoriale tra le due nazioni. Quel precedente fu un campanello d’allarme che contribuì a innescare un riesame in molte capitali. Le nuove restrizioni lanciate dall’America hanno tratto ispirazione anche da quell’episodio, oltre che dalle diverse penurie settoriali verificatesi durante la pandemia.
Vi si aggiunge lo scenario di un’annessione cinese di Taiwan con la forza militare, evocato apertamente da Xi Jinping, che porterebbe sotto il controllo di Pechino la più ampia capacità produttiva del mondo nei semiconduttori. Ha contribuito alle nuove strategie sull’export il fatto che la Cina fornisce alla Russia prodotti «duali» (semiconduttori e droni) che sono usati nella guerra in Ucraina.
Nel crescente antagonismo fra superpotenze, il pericolo che l’Occidente sia ricattabile in settori nevralgici – incluse tutte le tecnologie verdi, le apparecchiature necessarie per de-carbonizzare l’economia – ha portato all’attuale revisione dei rapporti con la Cina.
L’embargo su alcune tipologie di semiconduttori, orchestrato da Washington, è il tentativo di rallentare l’avanzata cinese in questi settori strategici anche a fini militari, e dedicare maggiori risorse a ricostruire un’autonomia industriale dell’Occidente e dei suoi alleati.
La contromossa di Xi Jinping conferma la fragilità dell’Occidente e ne sottolinea le contraddizioni. Terre rare, minerali e metalli indispensabili per le tecnologie avanzate o per le energie rinnovabili, sono finiti sotto un semi-monopolio cinese non perché si trovino prevalentemente nel sottosuolo di quel paese. Molte di quelle materie prime abbondano in Africa, America latina; Australia e Canada. Ma si possono trovare anche in Paesi occidentali che rifiutano di estrarle perché l’attività estrattiva o la raffinazione e lavorazione di queste materie prime viene considerata inquinante. Con l’eccezione di Australia, Canada, e in parte Stati Uniti, i Paesi sviluppati da decenni preferiscono delocalizzare queste attività. È per effetto di questa ritirata occidentale che la Cina è diventata il principale trasformatore di materie prime strategiche.
Xi Jinping sta misurando la capacità di tenuta dell’Occidente, con questa nuova misura: dal mese prossimo le aziende cinesi del settore dovranno ottenere licenze speciali per esportare gallio e germanio. Il ministero del Commercio cinese ha annunciato che queste restrizioni sono necessarie per «salvaguardare la sicurezza nazionale e gli interessi del Paese».
Gallio e germanio sono usati nei semiconduttori, in alcune apparecchiature di telecom e militari, nonché nei pannelli solari. Mentre l’America e i suoi alleati negano alla Cina alcuni prodotti «finali» nella filiera hi-tech, la rivalsa cinese impone un razionamento dal lato dei componenti.
La posta in gioco di questa sfida planetaria include la leadership in varie tecnologie del futuro che possono avere applicazioni anche nel campo militare, dai supercomputer all’intelligenza artificiale. Nell’immediato è a repentaglio soprattutto la transizione verso un’economia sostenibile, le cui infrastrutture e apparecchiature – dall’auto elettrica all’eolico al solare – sono soprattutto «made in China».
Ad alimentare il tentativo di autodifesa occidentale c’è anche la consapevolezza che in questi settori molte aziende cinesi hanno fatto terra bruciata della concorrenza dopo molti anni di uso sistematico di sussidi, aiuti di Stato, protezionismo e nazionalismo industriale.
È significativo che l’annuncio dell’embargo avvenga a pochi giorni dall’arrivo a Pechino della segretaria al Tesoro Usa, Janet Yellen. La visita della responsabile economica dell’Amministrazione Biden è la seconda di alto livello dopo quella del segretario di Stato Antony Blinken. Conferma un cauto tentativo di disgelo fra le due superpotenze, dopo che i contatti erano stati quasi interrotti a febbraio in seguito all’incidente del pallone-spia cinese sui cieli d’America. Le varie sanzioni commerciali incrociate con cui l’America e la Cina si colpiscono, finiranno sul tavolo negoziale e saranno una parte importante dell’agenda della Yellen a Pechino.
Per Xi Jinping l’embargo Usa sulle vendite hi-tech è un tema forse perfino più importante dei dazi doganali, che furono istituiti da Donald Trump e sono stati mantenuti da Joe Biden. È dall’ottobre scorso che l’Amministrazione Biden ha deciso l’obbligo di licenze e autorizzazioni speciali per le aziende che forniscono certi microchip alla Cina. Queste restrizioni si applicano non soltanto alle aziende di nazionalità americana, ma anche a produttori stranieri che utilizzino macchinari o software «made in Usa».
Due alleati-chiave, che hanno aziende di punta in questo settore, sono il Giappone e l’Olanda: ambedue hanno deciso di aderire all’embargo di Washington. In Olanda il nuovo regime di autorizzazioni obbligatorie ai sensi della sicurezza nazionale riguarda soprattutto la società Asml che fabbrica speciali «super-stampanti» per micro-chip. In Giappone l’imposizione di licenze è stata annunciata a marzo e colpisce 23 tipologie di macchinari usati nella fabbricazione dei semiconduttori.
Pechino aveva già messo in campo altri tipi di ritorsioni, per esempio le sue sanzioni contro alcuni fornitori del Pentagono come l’azienda aeronautica e aerospaziale Lockheed Martin. La Yellen è un personaggio-chiave visto che gran parte della nuova strategia americana verso la Cina investe le relazioni economiche. Di recente la segretaria al Tesoro ha fatto una concessione «linguistica» alla logica del disgelo. Per descrivere i nuovi obiettivi di Washington ha abbandonato il termine «decoupling» o divorzio, per sostituirlo con «de-risking» cioè riduzione del rischio. S’intende cioè il rischio di un’eccessiva dipendenza dalla Cina. Questa circoscrizione degli obiettivi li ha resi più realistici ma non è stata accolta in senso positivo da Pechino.
Federico Rampini
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